Il pensiero libero di una «spettatrice pensante»
HALLDÓRA THORODDSEN Un’intervista con la scrittrice islandese sul suo romanzo «Doppio vetro». Vedova e arrivata alla vecchiaia, la protagonista della storia incontra un nuovo e disincantato amore
HALLDÓRA THORODDSEN Un’intervista con la scrittrice islandese sul suo romanzo «Doppio vetro». Vedova e arrivata alla vecchiaia, la protagonista della storia incontra un nuovo e disincantato amore
Osservata attraverso il doppio vetro di un piccolo appartamento del centro di Reykjavík, a un’anziana donna la vita sembra scorrere senza poter più fare male, forse perché non ha più nulla da offrire. Eppure la protagonista del breve romanzo della scrittrice islandese Halldóra Thoroddsen, Doppio vetro (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, pp. 106, euro 15,00) – Premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2017, Premio per la Letteratura Femminile in Islanda nel 2016 e presentato ora all’ultimo Salone del Libro di Torino – non è una semplice spettatrice, è una «spettatrice pensante», dunque una donna ancora vitale che riflette sulle possibilità della sua condizione e «cova un senso di libertà» che deriva proprio dall’essere fuori dal gioco.
Si è organizzata la vecchiaia prima di compiere settant’anni. Vedova, ha venduto l’appartamento grande per comprarne uno più piccolo: «Al momento di trasferirsi ha dato via macchinate di roba. Le cose che le erano rimaste attaccate come cozze nel lungo arco dell’esistenza». Ma la vita insegna che proprio chi sa staccarsi dal passato è più capace di futuro. E così, benché «nessuno si aspetta mai che costruiamo un nido sull’orlo di una fossa», questa donna trova anche un nuovo amore. Un amore vissuto questa volta attraverso il filtro dell’esperienza, del disincanto di chi consapevolmente nulla si attende se non la rottura di una solitudine forzata dall’incomunicabilità tra le generazioni.
Il romanzo «Doppio vetro» è presentato generalmente proprio come un romanzo sull’amore nella terza età, ma forse non è solo questo. L’amore – anche sessuale – con un nuovo compagno, non è che un aspetto di qualcosa che sta più a fondo…
Sì, è così. Si tratta di un romanzo costruito su più livelli, e l’amore è soltanto uno di essi. Il tema fondamentale in realtà è quello della solitudine e l’amore altro non è che un modo per poter uscire da questa solitudine. L’amore, anche eroticamente inteso, è forse l’unico modo che permette alla protagonista di fuggire da una società senza amore per lei, una società che è poi anche in se stessa divisa. I figli e i nipoti sono «appendici» esterne che non dipendono più da questa donna, hanno la loro vita, le fanno visita solo per la zuppa della domenica, ma in questo modo non si rompe la sua solitudine. La rottura della solitudine per lei è possibile solo grazie all’amore di un uomo che prova un interesse vero nei suoi confronti, un interesse tangibile. Ma per accettare questa relazione ci vuole molto coraggio, bisogna sacrificare la propria libertà per lasciare spazio a un altro.
Sembra che dopo una certa età le persone non siano più aperte alle nuove esperienze, in senso ampio, non soltanto per quanto riguarda l’amore. Nel suo romanzo lei racconta che molti degli amici della protagonista non stringono più nuove amicizie da almeno vent’anni. Perché accade questo?
La nostra vita sembra divisa in compartimenti stagni, per ragioni legate alla vita sociale, al lavoro, alla stessa biologia. Prima ci sono l’infanzia e la giovinezza, periodo in cui si conosce tutto per la prima volta, in cui siamo più pieni di entusiasmo. I giovani pensano che la storia del genere umano cominci con loro, che tutto quello che c’è stato prima sia solo un malinteso. È giusto così, altrimenti perderebbero l’entusiasmo. Hanno un compito da svolgere. Poi c’è l’età adulta, in cui siamo presi da mille cose, dal lavoro e, per chi ce l’ha, dalla famiglia. Siamo occupatissimi e ci chiudiamo, non c’è spazio per qualcosa che sia veramente nuovo, così poi ci ritroviamo alla fine del percorso soli e stanchi. La protagonista di Doppio vetro è una donna consapevole, ma soprattutto coraggiosa, perché decide – non «le capita», lei decide – di dare un po’ di spazio a un’altra persona.
Colpisce un’immagine che lei utilizza all’inizio del libro, che forse rappresenta l’emblema della vecchiaia: una donna alla finestra guarda fuori e constata che «l’esperienza diretta si riduce, il battito rallenta, la vita fuori scorre veloce. Quasi non vale la pena di riporre le sedie dal terrazzo tra un’estate e l’altra»…
L’immagine è reale (ride, ndr) deriva da una mia esperienza vissuta quando facevo volontariato in una casa di riposo. Mi occupavo di una signora anziana molto pesante che doveva essere spostata. Ricordo che continuavo a fare avanti e indietro con una sedia del terrazzo, fino a quando mi sono detta che tanto valeva lasciarla dov’era. In realtà la percezione del tempo muta con il passare degli anni. Quando siamo piccoli ricordiamo le estati come eterne, per esempio, da anziani, stanchi, tutto pesa molto di più, ci pensiamo bene prima di fare qualsiasi sforzo, gli eventi sono tutti ravvicinati. Ricordo che all’inizio, in quella casa di riposo, vestivo di tutto punto la signora, poi però non si faceva che rimanere nella stanza tutto il giorno e allora mi sono chiesta se anche cambiarsi d’abito avesse un senso. Il tempo non era che un unico blocco uniforme scandito solo dai bisogni primari.
Come lei scrive, ciascuno è bloccato nel proprio tempo. Il tempo come misura coscienziale è però un flusso continuo: il riferimento è al tempo «personale» o all’epoca in cui ognuno vive?
Entrambe le cose. È il tempo della propria vita, ma insieme anche lo Zeitgeist, e quest’ultimo è a sua volta entrambe le cose. Se si vive la propria giovinezza, per esempio, in un’epoca significativa come la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, si lega l’immagine di sé a quegli anni, è l’imprinting che si ha di se stessi… è difficile staccarsene. Quello è il «proprio» tempo.
Benché un romanzo sulla solitudine dell’individuo, il suo è per forza di cose anche un romanzo sulle relazioni famigliari. Figli e nipoti, i «giovani» insomma, hanno difficoltà ad accettare il cambiamento nei propri genitori, soprattutto se si tratta di cambiamenti nelle relazioni personali, affettive, anche nel caso in cui il genitore sia vedovo/a. Come mai?
È una cosa che noi tutti fatichiamo ad accettare, perché nell’accettare il cambiamento di un genitore bisogna essere disposti a cambiare anche noi stessi. È un percorso difficile, a volte impossibile. Ai nostri genitori è legata l’immagine che noi abbiamo di noi stessi. Forse bisognerebbe essere educati a una cosa simile, ma è difficile, ci vuole intelligenza. E lo stesso vale per la capacità di comprendere i cambiamenti nello Zeitgest. Conosco un sacco di gente anche molto intelligente, che è totalmente incapace di comprendere il proprio tempo. E poi comunque – tornando a quanto dicevamo prima – va detto che non è un segreto che ciò che molti figli in realtà temono delle nuove relazioni sentimentali dei genitori sono solo le conseguenze che queste potrebbero avere sulle loro eredità!
Lei finora ha scritto diverse raccolte di poesie e racconti brevi. Perché il passaggio a un romanzo? Come definirebbe il proprio stile?
In realtà molti lettori delle mie poesie e dei miei racconti insistevano affinché scrivessi un romanzo. Volevano poter continuare a leggere quello che scrivevo, prolungare un qualcosa che, secondo loro, durava troppo poco. A me piace lavorare sull’«essenza» delle cose, e su ciò che quest’essenza sprigiona, per questo scrivo poesie. Mi piacerebbe definire il mio come uno «stile compatto» moltissimo in uno spazio ristretto!
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