A metà dell’Ottocento Thomas Carlyle definendo l’economia una «dismal science» (scienza triste) non criticava tanto il sistema economico basato sul mercato, quanto le previsioni pessimistiche dei maggiori economisti dell’epoca, come Malthus e Bentham: studiosi che nelle loro analisi mettevano in secondo piano la capacità costruttiva e creatrice della persona così come la possibilità che la società fosse mossa da forze non riconducibili al solo interesse materiale. Di fronte a queste chiavi di lettura, lo stesso Carlyle arrivò a parlare di «pig philosophy» (filosofia dei maiali), una teoria che escludeva qualunque visione ideale dalle motivazioni dell’agire umano.

ALL’EPOCA della riorganizzazione in chiave tecnocratica dei rapporti tra «conoscenza» e «potere» e dell’egemonia degli «esperti» – tecnici che sulla base del proprio sapere «imparziale», ultraspecializzato e «oggettivo» pretendono di trasformare dall’alto, in accordo con il potere, la società e le persone – c’è ancora spazio per scienze sociali «non tristi» ma attente alla ricchezza delle culture umane, agli interstizi della storia e ai modi imprevedibili e creativi con i quali gli esseri umani rispondono alle contraddizioni del loro mondo? Questa domanda di fondo attraversa come un filo rosso il libro A cosa servono le scienze sociali? Una conversazione con Marco Traversari (Ronzani Editore, pp. 144, euro 16) di Alessandro Dal Lago, grande sociologo italiano, a lungo collaboratore de il manifesto, scomparso il 26 marzo del 2022.

Al centro del volume-intervista il racconto auto-biografico del suo percorso intellettuale, dagli anni della formazione, a Pavia, a quelli milanesi e dei frequenti viaggi all’estero, fino alla maturità culminata con l’incarico di Preside presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. Anni a sua volta scanditi dai rapporti con i movimenti sociali, l’eredità del ’68 e poi del ’77, le vicende legate al dibattito sulla svolta postmoderna e sul pensiero debole, sulla globalizzazione, la «guerra al terrorismo» e l’immigrazione, anche all’ombra della repressione e del fallimento del movimento «no global».

CAMPIONE delle tecniche di ricerca qualitative in sociologia – come l’osservazione etnografica – e studioso attento di tutti quei sociologi e filosofi che hanno messo al centro delle scienze sociali il valore di una qualche forma di ermeneutica – da Weber a Simmel, da Foucault a Arendt, Weil, Geertz e Goffman, questi ultimi riscoperti e diffusi in Italia in buona parte grazie al suo lavoro – Alessandro Dal Lago offre tre spunti fondamentali per rispondere alla domanda da cui siamo partiti: primo, occorre sempre andare, con irriverenza e con curiosità, al di là degli steccati disciplinari, spesso artificiosi, se si vuole davvero studiare il mondo sociale in tutta la sua complessità e ricchezza.

Secondo, mai dimenticare o rimuovere che la conoscenza prodotta dalle scienze sociali è sempre un rapporto, carico di valori, tra soggetti umani e che mai questi ultimi possono essere ridotti a puri «oggetti» da matematizzare. Terzo, che il vero obiettivo delle scienze sociali è: «spiegare il senso e il significato di quello che accade nella vita sociale e nella storia. In particolare, quando la storia irrompe nella vita quotidiana».
Quello di Alessandro Dal Lago è dunque un invito a rilanciare il ruolo dell’intellettuale e del lavoro intellettuale rompendo la tendenza normalizzatrice e anestetizzante che attraversa la cultura contemporanea. Favorendo, al contempo, la presa di coscienza e il protagonismo dei soggetti sociali nella trasformazione del mondo.