Editoriale

Il peccato originale di Grillo

Erano forse un centinaio le persone radunate davanti il palazzo di Montecitorio, portavano striscioni, issavano cartelli con Grillo in effigie come fosse San Gennaro. Circondate da telecamere e fotografi, ricordavano […]

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 19 giugno 2013

Erano forse un centinaio le persone radunate davanti il palazzo di Montecitorio, portavano striscioni, issavano cartelli con Grillo in effigie come fosse San Gennaro. Circondate da telecamere e fotografi, ricordavano quelle donne e uomini che tante volte abbiamo visto intonare «meno male che Silvio c’è». Una somiglianza che non deve stupire nemmeno troppo. Per l’uso della tv e del blog: monodirezionale, dall’alto verso il basso, da emittente e ricevente, come abbiamo imparato a conoscere negli ultimi vent’anni di berlusconismo. Per la forma proprietaria della comunicazione grillina, altra analogia forte con il movimento berlusconiano. Una sorta di peccato originale che ne ipoteca la democrazia interna.

Non a caso la sostanza dell’espulsione della senatrice Gambaro si riferisce proprio a questa “premessa” democratica. La forte critica al capo indiscusso mette sul tavolo una questione di libertà e costa il prezzo della scomunica.

Arrivano al pettine i nodi di una rappresentanza parlamentare fragile in partenza, perché selezionata dai piccoli numeri delle “parlamentarie” e dunque sovrastata dal potere assoluto di chi ha magicamente trasformato la zucca in carrozza. Senza lo tsunami tour nessuno dei 159 deputati e senatori siederebbe in parlamento.

La condizione per emanciparsi dal piccolo padre pretende capacità personali, libertà di critica e una discussione aperta. Sullo ius soli, sulle tasse, sulla condizione carceraria, sulla mafia le discutibili esternazioni di Grillo sono la verità o l’opinione di uno che le spara grosse? E’ l’altro tabù che divide e cammina sottotraccia, quello della spendibilità di una forza così grande, la capacità di indirizzarla per ottenere risultati concreti. Non parliamo solo di alleanze (questione non di secondo piano), ma di chi e in quali sedi è legittimato a discutere e formulare una posizione su problemi di cultura politica senza essere espulso per non voler lavare i panni sporchi in famiglia.

Il dissenso politico, la figura del “traditore” non è un problema semplice, non lo era per i vecchi partiti, non lo è per l’unico rimasto in piedi in questa sgangherata seconda repubblica (abbiamo sotto gli occhi le scorribande delle correnti del Pd, testimonianza di una spiccata autoreferenzialità del gruppo dirigente nazionale). Tanto meno lo è per un Movimento giovane come i 5Stelle, appena entrato nel Palazzo spinto da un enorme consenso elettorale, alimentato da una protesta pescata negli elettorati di destra e di sinistra: una specie di larghe intese dal basso che ora non sanno che direzione prendere.

Oggi di fronte alla prima, seria prova di democrazia interna, di fronte a un voto come quello emerso nel grande gruppo parlamentare (79 eletti hanno votato per espellere una senatrice, con 42 contrari al diktat, 9 astenuti, e 20 assenti), quella intrapresa più che una via d’uscita sembra un vicolo cieco.

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