Ufficialmente, il Pd si mostra di fronte alle tensioni tra Conte e Draghi come un saggio fratello maggiore. «Il nostro auspicio è che il dialogo tra loro prosegua e si rafforzi», il commento ufficiale dopo il vertice tra il premier e il capo del M5S. «Per affrontare la crisi sociale serve un governo solido», continua ribadire Enrico Letta.

Dietro le quinte però i toni tra dem e grillini sono durissimi. L’ultimatum di Franceschini domenica scorsa a Cortona, «se uscite dalla maggioranza niente alleanza», restano il succo della linea del Pd. Che non solo continua con svariate telefonate a dire all’avvocato che se strappa dovrà correre da solo. Ma anche che i dem, in quel caso, non sarebbero più disponibili a sostenere Draghi fino al 2023, pur in presenza di una maggioranza garantita dai parlamentari di Di Maio. La minaccia (o bluff) è molto esplicita: «Caro Conte, se esci dal governo si vota in autunno e tu andrai da solo».

Che sia una pistola carica lo potranno dire solo i fatti, se i senatori 5S convinceranno l’avvocato a uscire dalle larghe intese. Anche perché, con la guerra in corso, e una maggioranza parlamentare pronta a sostenere ancora Draghi, per Mattarella non sarebbe facile sciogliere le Camere. «Il Pd non starebbe in una maggioranza solo con Lega, Fi e Iv e chiederebbe il voto anticipato», ribadiscono dal Nazareno. «Non ci faremo carico da soli della responsabilità mentre gli altri fanno campagna elettorale. Non ci si può chiedere di ripetere quello che è successo con Monti nel 2012-2013».

Posizione legittima, quando poi dovessero partire le consultazioni con Draghi dimissionario la musica certamente cambierebbe. Così come è improbabile pensare che, con questa legge elettorale (ieri da Meloni è arrivato un altro netto stop al proporzionale, mentre Salvini ribadisce che non vuole nessuna modifica al Rosatellum), il Pd possa correre senza il suo principale alleato, che nei sondaggi ancora sta intorno al 10%.

«Se Conte strappa la coalizione la facciamo con Di Maio e la sinistra», l’altro avvertimento che arriva dal Nazareno. Dove forse non si sono letti i sondaggi che inchiodano il partitino del ministro degli Esteri (che ieri ha visto il sindaco di Milano Beppe Sala per tentare di costruire una formazione centrista) intorno al 2%.

In ogni caso, il pressing del Pd su Conte è fortissimo. «Se te ne vai perdi la reputazione che avevi accumulato da premier», un altro dei messaggi. «Saresti fagocitato subito da Di Battista». Gli argomenti non mancano, e finora stanno funzionando, visto che Conte traccheggia. «Lui vorrebbe essere responsabile, sono i suoi parlamentari che lo strattonano», il ragionamento che circola ai piani alti del Nazareno.

Anche uno prudente come il ministro del Lavoro Andrea Orlando usa parole affilate: «Se Conte esce, la maggioranza cambia di segno e anche le condizioni per le quali avevamo accettato di farne parte. Quindi vedo difficile, anzi impossibile, proseguire facendo finta di niente e non vedo un’altra possibilità di costruire una formula che arrivi in fondo alla legislatura». «Dopo una rottura, rimettere insieme i cocci è abbastanza complicato», prosegue Orlando. «E sarebbe difficile presentarsi insieme agli elettori…».

A Letta i toni dell’ultimatum di Franceschini sono parsi sopra le righe. Quasi un dito nell’occhio alla truppa grillina che ribolle. Avrebbe evitato. Tra il segretario e il ministro della Cultura c’è in realtà una diversità di vedute: Franceschini vorrebbe arrivare al 2023 anche con una maggioranza ristretta, Letta invece chiederebbe il voto. Ma è chiaro che, di fronte a una preferenza di Mattarella per una fine ordinata e naturale della legislatura (e per evitare le urne in piena sessione di bilancio) il segretario dem scatterebbe sull’attenti. Ed è questo, in fondo, che rende scarica la pistola puntata contro il leader 5S.