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Il Pd litiga sul dialogo, Renzi mina il tavolo con M5S

Il Pd litiga sul dialogo, Renzi mina il tavolo con M5SMaurizio Martina – lapresse

Democrack L’ex segretario in tv, non chiude ma detta condizioni impossibili. Martina arretra: la direzione discute solo se cominciare a discutere. Poi annuncia un possibile referendum interno "per far decidere la base", ma il regolamento possono scrivere solo i renziani

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 29 aprile 2018

Il grande vuoto che separa le consultazioni del presidente Fico (l’ultima il 26 aprile) e la direzione nella quale il Pd dovrà decidere se sedersi o meno al tavolo con il Movimento 5 Stelle (il 3 maggio) si riempirà oggi delle decisioni di Matteo Renzi, che torna in tv. Sarà stasera a Che tempo che fa: la prima volta sugli schermi dopo la sconfitta del 4 marzo cade nelle ore in cui il Pd si avvia a perdere anche in Friuli. Ma non si parlerà di questo, l’attesa è per la linea renziana sulla trattativa con i grillini. Prevista una chiusura netta, travestita però da disponibilità al confronto se i 5 Stelle accetteranno alcune condizioni inaccettabili. Tipo: sì al Jobs act, sì alla buona scuola, riconoscimento dei meriti dei governi di centrosinistra.

Poi cioè la questione del candidato a palazzo Chigi: il Pd non può accettare che sia Di Maio, i grillini che non lo sia. La settimana di attesa sarà così passata invano. Eppure Renzi, un po’ perché anche tra i suoi è diffusa l’idea che le offerte di dialogo non vadano mai rifiutate, un po’ perché non vuole che gli si attribuisca la responsabilità di aver fatto tornare Di Maio nelle braccia di Salvini, stasera dovrebbe dire che per carità, il confronto si può fare «alla luce del sole».
La distanza con il segretario reggente è evidente, perché Martina ha detto e ripetuto che il Pd deve incalzare i 5 Stelle e ancora ieri ha spiegato di temere «molto» soprattutto due cose: «Un governo con Salvini come socio di riferimento e una precipitazione al voto anticipato». Cioè le due alternative all’accordo Pd-M5S. Martina lo ha detto intervistato da SkyTg24, dove ha però fatto ancora un riconoscimento al ruolo dell’ex segretario. «Il Pd ha bisogno del suo punto di vista e della sua forza… Ci mancherebbe che noi ci privassimo di una personalità come Renzi, non esiste». E allora l’esito di questo scontro tra il non più segretario e il non segretario sarà prevedibilmente che il secondo accetterà la condizioni del primo. Le farà sue. Anche perché nel Pd si prepara un’altra partita, quella del congresso da tenere entro fine anno.

Nel frattempo anche l’attesissima direzione rischia di diventare uno spettacolo un po’ assurdo, dopo che l’assemblea nazionale convocata il 21 aprile è stata rinviata a non si sa quando. «Evitiamo di fare una direzione dove ci dividiamo sul parliamo o non parliamo con il M5S», avverte il renziano Richetti, ma è precisamente quello che potrebbe avvenire. Perché arretrando dietro i colpi della corrente dell’ex segretario, Martina ha già detto che «il 3 maggio non dovremo decidere se fare o non fare un governo con il M5S, ma capire se esiste la possibilità di un confronto». Un confronto che anche lui, più ottimista e mandato avanti dai sostenitori dell’accordo come Franceschini e Orlando, definisce «in salita». Non solo, consapevole che i numeri in direzione non consentono deragliamenti dalla mistica dei «100 giorni» renziani, Martina giura che «difenderò sempre il lavoro fatto dai governi del Pd in questi anni che hanno portato l’Italia fuori da una grande crisi» (del resto era ministro di quei governi).

E allora anche l’annuncio di ieri del reggente che «è giusto che l’eventuale esito finale di questo lavoro venga valutato dalla nostra base con una consultazione», il referendum interno cioè, non è di quelli destinati a cambiare il corso della storia. Intanto perché arriverebbe al termine di un percorso che difficilmente comincerà sul serio. E poi perché di quel referendum interno, pure previsto dallo statuto Pd – in due versioni, tra gli iscritti o tra gli elettori – non è mai stato approvato il regolamento: deve farlo la direzione a maggioranza assoluta (mai quindi senza il consenso di Renzi). Nel frattempo appelli e conte arrivano già spontaneamente dalla «base», ieri oltre cento quadri del Pd romano hanno raccolto le loro firme per dire no a qualsiasi forma di intesa con i grillini.
Ipotesi che, laddove si dovesse mai verificare, vedrebbe la Lega in piazza. Lo ha ripetuto ieri Salvini, senza parlare più di «passeggiata» su Roma, ma di «milioni di italiani pronti a mobilitarsi» contro l’accordo tra Pd e M5S. Tra loro sicuramente anche molti renziani.

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