Il patto d’acciaio Nato-Ue
L'arte della guerra La rubrica settimanale di Manlio Dinucci
L'arte della guerra La rubrica settimanale di Manlio Dinucci
«Di fronte alle sfide senza precedenti provenienti da Est e da Sud, è giunta l’ora di dare nuovo impeto e nuova sostanza alla partnership strategica Nato-Ue»: così esordisce la Dichiarazione congiunta firmata l’8 luglio, al Summit Nato di Varsavia, dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker.
Una cambiale in bianco per la guerra, che i rappresentanti dell’Unione europea hanno messo in mano agli Stati uniti. Sono infatti gli Usa che detengono il comando della Nato – di cui fanno parte 22 dei 28 paesi dell’Unione europea (21 su 27 una volta uscita dalla Ue la Gran Bretagna) – e le imprimono la loro strategia.
Enunciata appieno nel comunicato approvato il 9 luglio dal Summit: un documento in 139 punti – concordato da Washington quasi esclusivamente con Berlino, Parigi e Londra – che gli altri capi di stato e di governo, compreso il premier Renzi, hanno sottoscritto a occhi chiusi.
Dopo essersi estesa aggressivamente ad Est fin dentro il territorio dell’ex Urss e aver organizzato il putsch neonazista di piazza Maidan per riaprire il fronte orientale contro la Russia, la Nato accusa la Russia di «azioni aggressive, destabilizzazione dell’Ucraina, violazione dei diritti umani in Crimea, attività militari provocatorie ai confini della Nato nel Baltico e Mar Nero e nel Mediterraneo orientale a sostegno del regime siriano, dimostrata volontà di ottenere scopi politici con la minaccia e l’uso della forza, aggressiva retorica nucleare».
Di fronte a tutto questo, la Nato «risponde» rafforzando la «deterrenza» (ossia le sue forze nucleari in Europa) e la «presenza avanzata nella parte orientale dell’Alleanza» (ossia lo schieramento militare a ridosso della Russia).
Una vera e propria dichiarazione di guerra (anche se la Nato assicura che «non cerca il confronto con la Russia»), che può far saltare da un momento all’altro qualunque accordo economico dei paesi europei con la Russia. Sul fronte meridionale, dopo aver demolito la Libia con una azione combinata dall’interno e dall’esterno e aver tentato la stessa operazione in Siria (fallita per l’intervento russo); dopo aver armato e addestrato gruppi terroristi e aver favorito la formazione dell’Isis/Daesh e la sua offensiva in Siria e Iraq, spingendo ondate di profughi verso l’Europa, la Nato si dichiara «preoccupata» per la crisi che minaccia la stabilità regionale e la sicurezza dei suoi confini meridionali, per la tragedia umanitaria dei profughi; «condanna» le violenze dell’Isis/Daesh contro i civili e, in termini più forti, «il regime siriano e i suoi sostenitori per la violazione del cessate il fuoco». Per «rispondere a queste minacce, comprese quelle da sud», la Nato potenzia le sue forze ad alta capacità e dispiegabilità.
Ciò richiede «appropriati investimenti», ossia una adeguata spesa militare che gli alleati si sono impegnati ad accrescere. Dalle cifre ufficiali pubblicate dalla Nato durante il Summit, risulta che la spesa militare dell’Italia nel 2015 è stata di 17 miliardi 642 milioni di euro e che quella del 2016 è stimata in 19 miliardi 980 milioni di euro, ossia aumentata di 2,3 miliardi. Tenendo conto delle spese militari extra budget della Difesa (missioni internazionali, navi da guerra e altre), la spesa è in realtà molto più alta.
Stando alla sola cifra della Nato, l’Italia nel 2016 spende in media per il militare circa 55 milioni di euro al giorno. Mentre il premier Renzi si pavoneggia tra i «grandi» al Summit di Varsavia, e il parlamento (opposizioni comprese) gira la testa dall’altra parte, la Nato e la Ue decidono della nostra vita.
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