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Il parlamento apre le porte girevoli. E Conte si rilassa

Il parlamento apre le porte girevoli.  E Conte si rilassa

Grand Hotel Tre senatori 5S passano alla Lega, il forzista Bendinelli va con Renzi Una pattuglia azzurra pronta a dare una mano al governo

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 13 dicembre 2019

«Grand Hotel, gente che viene, gente che va». Da un pezzo la frase che apriva e chiudeva il capolavoro con Greta Garbo e John Barrymore si attaglia perfettamente all’assai meno glamorous popolo di Montecitorio e palazzo Madama. Chi va, stavolta, è per primo il senatore a cinque stelle Ugo Grassi. Dopo i voti in dissenso di ieri dà seguito alla scelta di campo e passa alla Lega. Salvini lo accoglie a braccia aperte: «Porte aperte a tutti gli eletti e gli elettori 5S che mantengono coerenza, onore e dignità». Di Maio la vede in altro modo: «Diteci quanto costa al chilo un senatore». In compenso la porta girevole viene imboccata in senso opposto a Montecitorio, dove il deputato forzista Davide Bendinelli approda a Italia Viva, con Renzi e con la maggioranza. Ma poi in serata Grassi viene seguito da altri due senatori pentastellati: passano alla Lega anche Francesco Urraro e Stefano Lucidi.

La porta del Grand Hotel Parlamento in questi 21 mesi ha girato 88 volte, ancora lontano dalle circa 300 trasmigrazioni della scorsa legislatura ma pur sempre una cifra di tutto rispetto. Soprattutto perché gli ultimi traslocati sembrano più teste di ponte che casi isolati. Al Senato i pentastellati col mal di pancia sono un manipolo nutrito, i tre che col voto contro il Mes avevano esplicitato la loro tentazione e che ieri hanno formalizzato il trasloco, e forse, con parecchie resistenze in più, anche Gianluigi Paragone e qualche altro che per ora preferisce l’ombra e la diserzione dal voto piuttosto che il gesto clamoroso.

CI SAREBBE DI CHE preoccupare Giuseppe Conte, essendo i numeri al Senato quelli che sono. Il premier invece è rilassato e spiega senza perifrasi perché: «Non mi preoccupano i cambi di casacca. Quel che conta è il riscontro numerico». Una maggioranza purchessia la si troverà comunque. Non parla a caso il premier e neppure solo sulla base della sua duplice esperienza a palazzo Chigi. Sa che al Senato, come del resto a Montecitorio, un drappello di forzisti è più che pronto a correre in soccorso. Lo guida Paolo Romani, un tempo tra i più spinti nel flirt con la Lega ma si sa come vanno le cose. I senatori attratti come falene dalla luce renziana sarebbero una decina, tutti in qualche misura vicini all’area dissidente di Mara Carfagna e tutti, quanto meno, poco disposti a ritrovarsi sudditi di Salvini: nomi come Mallegni, Cangini, Dal Mas, Masini. Per ora non hanno intenzione di imboccare la porta girevole. Non con questo governo in carica. Ma se in questo o quel voto servisse una mano non si tirerebbero indietro.

IN FONDO SE la maggioranza ripone tante speranze nel miracolo di gennaio, cioè in un improvviso rilancio del governo, una ripartenza, macché la vera partenza perché sin qui è stato riscaldamento, è proprio per la consapevolezza di rischiare ben poco sulla scala scivolosa dei voti a palazzo Madama. Tanta serenità non contagia Di Maio, che al contrario è furibondo, non fa niente per nasconderlo e anche se ci provasse non ci riuscirebbe. Lo si può capire. Nel suo caso la logica di Conte, quella secondo cui da dove arriva il «riscontro numerico» importa poco, non ha valore. Il rischio dell’implosione dei suoi gruppi mina la già traballante posizione nel partito e diminuisce vertiginosamente il peso specifico nel governo. Tanto più che le forze fresche pronte a sostituire i pentastellati a disagio nei panni del nuovo M5S moderato andrebbero a rafforzare la truppa renziana, che nei confronti dei già odiati alleati non ha mai nascosto una insuperata ostilità. Tenerlo a freno non sarà una passeggiata.

LO STESSO EVENTUALE rafforzamento della compagine renziana smussa qualche problema ma ne acuisce altri. La riottosità del ragazzo di Rignano è nota, la tendenza guerrigliera anche e la batosta della Fondazione Open è tutt’altro che assorbita. Le citazioni di ieri, quella da Moro sul caso Leone-Lockheed e quella tratta dalla chiamata in correità rivolta da Craxi a tutti i partiti nel 1992, avevano un significato poco equivocabile. Alludevano non tanto alla magistratura, presa poi di mira direttamente, ma al blocco composto da una parte della stampa e dei partiti intorno alle iniziative della magistratura che fu essenziale nel costringere Leone alle dimissioni e nel liquidare Craxi. Quelle citazioni erano un monito e un avvertimento.
Il tavolo di gennaio è questo. La partita non sarà facile per nessuno.

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