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Il paradigma vittimista come strumento di governo

Storia Da "grande proletaria" al giorno del ricordo, la costante tensione autoassolutoria della nazione italiana

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 14 marzo 2015

Un aspetto determinante dell’auto-narrazione nazionale, del racconto di noi stessi di cui veniamo dotati per percepirci nel mondo, consiste nel descrivere l’Italia e gli italiani come vittime del corso accidentato della storia. Tale immaginario, figlio diretto del nazionalismo risorgimentale, assunto sin dalle parole del nostro inno – da secoli calpesti e derisi – ha prodotto col tempo anche il correlato degli italiani “brava gente”, reiterato di volta in volta a giustificazione bonaria dei nostri scheletri nell’armadio: dal colonialismo dal volto umano al fascismo regime “minore”, e via dicendo. In anni più o meno recenti una generazione di storici ha provveduto a smontare tale “paradigma autoassolutorio”, indagando sulle responsabilità giuridiche, politiche ed etiche dei governi italiani in campo nazionale e internazionale dall’800 ai giorni nostri. Un lavoro che però rimane confinato al dibattito accademico tra addetti ai lavori: l’ideologia sottesa all’istituzione del “giorno del ricordo”, così come la lunga querelle con l’India riguardo alla vicenda dei “due marò”, confermano come tale imponente dibattito storico non raggiunga il piano politico-mediatico generalista, quello destinato ad influenzare l’opinione pubblica. In effetti, in questi anni si è assistito, più che ad un concreto revisionismo storico in chiave accademica – operazione questa sempre auspicabile – ad un vero e proprio uso politico della storia, volto a piegare particolari vicende del nostro passato recente al fine di legittimare un discorso politico contingente. L’evoluzione politica di determinati partiti, la fine della pregiudiziale antifascista, la necessità di sdoganare attori politici dal passato impresentabile, hanno riattivato in questi anni cliché retorici mai veramente superati.

Ancora oggi, passato quasi mezzo secolo dai lavori di Angelo Del Boca e Giorgio Rochat sui crimini italiani durante le varie spedizioni coloniali, ancora fatichiamo ad assumerci le responsabilità storiche di aver intrapreso delle imprese coloniali in tutto e per tutto speculari a quelle delle nazioni tipicamente associate al concetto stesso di colonialismo. Eppure, nonostante circa 500.000 africani morti durante le guerre di aggressione promosse dall’Italia liberale e poi fascista, nonché l’invenzione e l’utilizzo di armi chimiche contro le popolazioni civili, tuttora veniamo colti da stupore di fronte all’inimicizia, a volte vero e proprio odio, che alcune popolazioni africane ancora riserbano nei nostri confronti, dalla Libia alla Somalia. I conti con la storia, che alcuni Stati hanno voluto o dovuto fare con il proprio passato criminale, da noi rimangono argomento tabù. Che impedisce non solo di immaginare processi giuridici o economici di riparazione dei danni provocati, quanto quello di attuare politiche conseguenti con il peso del proprio passato (ad esempio, evitare di andare a bombardare paesi vittime delle nostre passate aggressioni militari). (Auto)descritti come civilizzatori, l’odio di talune popolazioni sembra coglierci di meraviglia, e invece di comprenderlo veniamo intrappolati dal più trito stereotipo razzista di chi pensiamo dovrebbe ringraziarci piuttosto che accusarci.

Laddove però tale rimozione delle colpe raggiunge l’acme è nella giornata del ricordo, istituita per legge nel 2004 dietro pressante iniziativa dell’allora Alleanza Nazionale, fulgido esempio di uso della storia per fini politici contingenti, in questo caso la legittimazione “culturale” di un soggetto politico atipico. Nel caso in questione la rimozione delle colpe si tramuta in “rimozione delle premesse”: la storia travagliata del confine orientale, nella vasta pubblicistica di riferimento – a parte alcuni lavori in controtendenza – parte inevitabilmente dal 1943, saltando a piè pari e volontariamente il ventennio di nazionalizzazione forzata delle popolazioni slovene e croate residenti nella Venezia Giulia e in Istria. Al di là della bibliografia in merito, è soprattutto il racconto ufficiale delle istituzioni italiane a fare propria una visione degli eventi de-responsabilizzante. Non si tratta di minimizzare o banalizzare le sofferenze di popolazioni vittime di un contesto bellico che ne determinò i destini, talvolta tragici. Si tratta, per l’appunto, di operare una contestualizzazione, non per “ridurre” il dramma ma per comprenderlo, spiegarlo, coglierne le premesse. La nazionalizzazione coatta delle terre slovene e croate durante il ventennio di dominazione italiana produsse odi e rancori umani che sfociarono anche nella “vendetta sommaria”, ma questa, ancorché non giustificabile, dev’essere spiegata attraverso il processo storico che ne determinò le cause. Un processo storico anche qui segnato dalle politiche coloniali del regime fascista, anche in questo caso in perfetta continuità col precedente regime liberale. La retorica vittimista italiana non riesce a riconoscere la vittima nell’altro campo, perché nel racconto nazional-popolare attorno ai temi delle foibe e dell’esodo l’unica vittima è la popolazione italofona, “costretta” a migrare dal nuovo governo jugoslavo, e mai “carnefice”, assumendosi la responsabilità di vent’anni di repressione etnica anche nei territori istriani. Giova ricordare che mai l’Istria ha avuto un governo italiano diverso da quello fascista, motivo in più per la sedimentazione di quel parallelo tra italiano e fascista stimolatore di impropri quanto fisiologiche sovrapposizioni.

L’essere vittime e mai responsabili delle proprie azioni non è dinamica legata solo agli eventi del passato. La vicenda dei “due marò” ha riproposto in questi due anni la vocazione autoassolutoria di chi si percepisce vittima degli eventi. Scompaiono, nella ricostruzione ad usum mediatico, le uniche due vittime reali, concrete, della vicenda, cioè i due pescatori indiani Valentine Jelestine e Ajesh Binki. Si dissolve la loro storia, la sofferenza delle loro famiglie. Svanisce soprattutto il contesto, cioè la militarizzazione delle rotte internazionali del trasporto marittimo, data per assodata. Chi pagava – e paga tutt’oggi – la presenza di militari a bordo delle navi commerciali? In base a quale trattato o legge si consente la presenza militare su imbarcazioni civili, e quali sono le regole d’ingaggio? Perché l’Italia, nonostante lotti per l’innocenza dei due militari, ha da tempo pagato un indennizzo monetario alle famiglie dei pescatori uccisi ammettendo di fatto la colpevolezza dei due marò? Domande inevase di fronte all’unica narrazione consentita, quella di un paese vittima degli umori nazionalistici di un altro soggetto, ovviamente aggressore, carnefice delle ragioni del nostro paese. Davvero in pochi contestualizzano la vicenda della pirateria internazionale a largo delle coste somale con il fallimento e il conseguente smembramento della stessa Somalia, avvenuto tramite una guerra a cui anche l’Italia ha partecipato (ovviamente con operazioni di “peace-keepinkg”). Le premesse vengono cancellate, la coscienza nazionale salva.

Il controllo della memoria si traduce allora in strumento di governo. Rimuovere costantemente le nostre responsabilità storiche e politiche reitera l’autoassoluzione come modello di consenso. La percezione fallace di una nostra presunta diversità consente scelte politiche determinanti, come l’adesione a operazioni militari internazionali o la persistenza di un certo retaggio coloniale da parte di aziende italiane nei paesi economicamente arretrati. L’immaginario vittimista si presenta dunque come facilitatore ideologico, strumento attraverso il quale veicolare il consenso attorno ai passaggi chiave della nostra condotta politica.

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