Da trent’anni Lugi Guelpa, giornalista, frequenta l’Africa del calcio ricca di storie di vincitori, di vinti e di stregoni che si intrecciano tra di loro come scrive nel suo libro Pallone nero (Ed. Urbone publishing, euro 15) pubblicato a giugno di quest’anno. «L’ispiratore di questo viaggio nel calcio del continente nero è stato Gianni Mura», ci tiene a sottolineare Guelpa. «Lo scorso agosto eravamo a pranzo a Milano e mi chiese a bruciapelo se fossi disposto a scrivere Pallone nero, aveva già pensato anche al titolo. Lui ha sempre avuto un debole per lo Zambia. L’aveva visto fare a pezzi l’Italia alle Olimpiadi di Seul del 1988. L’abbiamo ultimato a gennaio di quest’anno, poi è accaduto l’imponderabile».

Nel libro racconti le storie di giocatori che hanno avuto successo e un riscatto sociale, ma prima hanno fatto i conti con la miseria o la guerra…

Con la miseria tutti, molti anche con la guerra. Il pallone è davvero uno strumento meraviglioso. Ha permesso a parecchi di loro di cancellare la povertà, ma soprattutto di non dimenticare mai le origini. Ci sono centinaia di calciatori africani che aiutano i loro Paesi d’origine, che fanno beneficenza o si battono in difesa degli animali, come Yaya Touré, ex Barcellona e Manchester City, che è diventato ambasciatore dell’Unep (programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) con lo scopo di sensibilizzare la comunità internazionale sulla questione del bracconaggio che sta decimando la popolazione degli elefanti africani. Altri, invece, intervengono per fermare conflitti regionali; penso ad Abedì Pelé, ex giocatore del Torino, che organizzò nel 1992 una cena tra la sua nazionale, il Ghana, e quella della Costa d’Avorio, in accordo con l’allora capitano Gadi Celi, per scongiurare l’imminente guerra tra i due Paesi per questioni di confini marittimi e petrolio.

Anche la storia di Bruce Grobbelaar, il portiere del Liverpool che nel 1984 vinse la Coppa dei campioni battendo in finale la Roma, ha a che fare con la guerra…
Grobbelaar era un soldato, salvato dal pallone. Ha combattuto la guerra di Rhodesia, ha ucciso, ha rischiato di morire. Una volta mi raccontò: «Tornai a casa in licenza. Il mio vicino indossava la divisa dell’esercito nemico. Mi disse che alla prima occasione utile mi avrebbe ucciso senza esitazione. Gli risposi sorridendo che avrei fatto la stessa cosa. Lui non c’è più, io sono ancora qui». Poi fu aiutato da Tony Waiters, ex ct del Canada, britannico, che lo salvò dalla guerra portandolo a Vancouver e poi consigliandolo al Liverpool.

Tante storie anche di calciatori africani «vinti». Che cosa intendi?
Sono quelli che non ce l’hanno fatta o che hanno brillato soltanto per una notte. Penso al centravanti nigeriano Femi Opabunmi, sembrava destinato a spaccare il mondo. È stato il terzo calciatore più giovane di tutti i tempi a giocare i mondiali dopo l’irlandese del nord Norman Whiteside e il camerunense Samuel Eto’o. Nel 2002, in Corea, era atteso al varco, ma una grave malattia agli occhi l’ha trasformato in un giovane invalido che ancora oggi vive nella miseria.

Un calciatore africano che avrebbe meritato più fortuna?
Dico a colpo sicuro Benjamin Massing. Era un ottimo centrale della nazionale del Camerun. Viene però ricordato per essere entrato duro sulla caviglia di Caniggia nella sfida tra Camerun e Argentina ai mondiali italiani del 1990. L’impatto fu così violento che il difensore africano perse addirittura una scarpa. Divenne Benjamin il macellaio e ancora oggi i video, impietosi, lo ritraggono sui social in quell’unico momento di follia. Aveva sacrificato consapevolmente la carriera per il suo Paese, ma quando la squadra rientrò in Camerun dopo aver sfiorato il podio fu l’unico a non essere invitato dal presidente della repubblica. Di ingaggi all’estero neppure a parlarne, nessuno se la sentì di offrirgli una seconda possibilità. Così come nessuno a fine carriera gli offrì un posto da allenatore. È morto nel dicembre del 2017 d’infarto, dimenticato da tutti.

In questo calcio c’è spazio anche per la stregoneria…

È radicato nella cultura animista dell’Africa nera; una terra dove voodoo e sortilegi valgono più del fiuto del gol di un attaccante o delle acrobazie di un portiere. Ciò che accadde nel settembre del 2008 a Butembo, nell’ex Zaire, superò la fantasia di qualsiasi sceneggiatore. Per propiziarsi gli dei, ed evitare la quasi certa sconfitta, il portiere della squadra locale raggiunse la metà campo per mettere in pratica un rito di magia nera. Gesto che venne interpretato dagli spettatori in maniera negativa. Sulle tribune si scatenò un fuggi fuggi generale e nella rissa tredici persone persero la vita. A confronto il leggendario Thomas N’Kono si può considerare un apprendista agli esordi. Nel 2002 venne ammanettato dalla polizia del Mali mentre tentava di sistemare un amuleto sul terreno di gioco prima della gara tra i padroni di casa e il Camerun.

L’età dei giocatori africani a volte è un mistero. Tu ne parli raccontando la storia di Nii Lamptey che non è mai stato bambino…
Ho avuto la fortuna di intervistarlo ad Accra, in Ghana, dove dirige una scuola calcio. Sulla sua carta d’identità c’è scritto nato il 10 dicembre del 1974, ma è di sicuro sbagliata. Non c’è stato inganno. Il 1974 è l’anno in cui è stato registrato all’anagrafe. Nessuno si è preso la briga di falsificare i documenti. Per chi come lui nasce in un villaggio, la città è un concetto quasi astratto. Suo padre lo registrò alla prima occasione in cui si recò ad Accra, il 10 dicembre di quell’anno. È una prassi diffusa in Africa. Nel tempo ha raccolto fotografie, oggetti. Ha interpellato alcuni anziani del villaggio dove aveva vissuto. Mettendo tutto insieme ipotizza di essere nato tra il 1968 e il 1970. Non sapendo davvero quando fosse stato concepito si è sempre aggrappato alla data dei documenti. Anche se in campo faceva la differenza perché era già un atleta completo.

Non è stato facile per il continente africano farsi strada nella Coppa del mondo. Perché?
Manca l’organizzazione e la corruzione dilaga. Camerun, Senegal e Ghana hanno raggiunto i quarti di finale, ma per vedere un’africana sul podio ci vorrà ancora troppo tempo. Le squadre sono divise in clan. I premi di qualificazione ai mondiali vengono spesso sottratti dai dirigenti. Gli allenatori stranieri non vengono pagati oppure subiscono tutta una serie di ingerenze insostenibili.