«Il paese è il popolo, e il popolo è paese». Un famoso mantra nei discorsi di Xi Jinping ]in lingua cinese utilizza jiangshan per parlare della nazione: si tratta di un termine suggestivo, che nella forma e nel significato (jiang significa «fiume», shan «montagna») raffigura una Cina splendida, naturale.

Un’immagine tanto estranea agli occhi degli esterni, quanto a quella di oltre la metà dei cittadini cinesi che vivono in città. È la «bella Cina» (meili Zhongguo) quel paese pulito e verde che oggi occupa un posto d’onore nelle intenzioni del Partito e (soprattutto) nella sua retorica. Durante il discorso di apertura del XX Congresso, Xi ha parlato di «solidi progressi» in campo ambientale e, come d’abitudine, di un approccio capace di conciliare natura e sviluppo.

Già oggi «i cieli sono più blu, le montagne più verdi e le acque più pulite». Un paese tanto bello, quanto giusto. Ma a preoccupare Pechino non sono solo la salute dei cittadini, o la perdita di biodiversità. «I vincoli di natura ambientale – come la perdita di fertilità del suolo, l’inquinamento delle risorse idriche o la desertificazione – sono un ostacolo al completo raggiungimento di una trasformazione qualitativa della produzione economica cinese», spiega Andrea E. Pia, docente alla London School of Economics specializzato in antropologia giuridica e ambientale.

«Se non avviene questa trasformazione, la Repubblica popolare non potrà raggiungere il tanto ambito primato di potenza mondiale». Lo sviluppo sostenibile non è, quindi, solo una promessa: è una necessità. «Volenti o nolenti, l’economia Cinese dovrà fare i conti con la questione ambientale nei prossimi anni, soprattutto a livello di pianificazione, ma anche a livello ideologico».

Le problematiche ambientali, oggi ancora più evidenti davanti all’accelerazione dei fenomeni climatici estremi in Cina, sono l’ennesima contraddizione del sistema. E del Partito-Stato. Se nel 2021 – centenario della fondazione – il Pcc ha dovuto fare i conti con la storia, nel 2022 il XX Congresso richiede un’urgente riflessione sul futuro. «L’economia cinese si trova in una fase di transizione qualitativa che presenta diversi rischi, dall’implosione della bolla edilizia, alla trappola del reddito medio, passando per la necessità di innovare senza cadere nella frode intellettuale». «In aggiunta a queste sfide – continua Pia – la Cina deve necessariamente decarbonizzare la sua economia. Non solo per se stessa, ma per la sopravvivenza dell’ordine mondiale sul quale vorrebbe presiedere». Ma il problema è davanti agli occhi di tutti.

«Sessanta anni di sviluppismo hanno notevolmente limitato le opzioni a disposizione. Parliamo di una scelta di politica economica basata quasi esclusivamente sullo sviluppo dell’industria pesante e sulla sovrapproduzione, un sistema le cui emissioni sono intrinsecamente difficili da abbattere», spiega Pia. «Se la Cina dovesse decidere di abbandonare lo sviluppismo alla base della sua strabiliante crescita economica, dovrebbe anche abbandonare il sogno di diventare la prima economia mondiale per valore prodotto. Una contraddizione insanabile all’interno dell’immaginario sociale proprio del Pcc».

E qui torniamo all’imperativo sociale. Lo sviluppo verde nella retorica del Partito viene inglobato nello slogan «servire il Popolo», cercando di fare in modo che la «bella Cina» faccia da terreno fertile per la tanto ambita «società moderatamente prospera». Significa che la questione ambientale inizia e finisce con la leadership?

No, spiega l’esperto. Oggi esistono spazi istituzionalizzati in cui i comuni cittadini possono chiedere e trovare giustizia ambientale. Ad esempio, da quando è entrata in vigore la legge sul contenzioso di interesse pubblico (2017), sono stati aperti oltre 150mila casi relativi a questioni ambientali. «È importante, però, sottolineare che il Pcc abbia attivamente represso almeno due generazioni di lotta ambientale in Cina», conclude Pia.

«Tutt’oggi personaggi di primo piano come Ou Hongyi (la cosiddetta Greta Thunberg cinese) vengono visti di cattivo occhio dalla società civile, che per motivi di opportunità riformista preferisce mantenere un basso profilo».