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Il paesaggio dissoluto

Il paesaggio dissolutoFoto Reuters

Patrimonio «Costituzione incompiuta», il libro di Settis, Leone, Maddalena, Montanari per Einaudi. Un'indagine a tappeto sulle norme giuridiche e i loro inciampi nel campo dei beni culturali e ambientali

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 29 marzo 2014

Il volume Costituzione incompiuta. Arte paesaggio e ambiente di Alice Leone, Tomaso Montanari, Paolo Maddalena e Salvatore Settis (Einaudi), è un lavoro fondamentale poiché è uno strumento di approfondita conoscenza che apre contemporaneamente a grandi prospettive di azione politica e culturale. In continuità con la strada aperta da Settis nei suoi precedenti ragionamenti (Azione popolare, 2011; Paesaggio, Costituzione, cemento, 2010) nel libro si trova infatti una preziosa guida per costruire una cultura della tutela del paesaggio e del territorio come beni comuni. Tema come noto molto presente in ogni iniziativa dei comitati che difendono i territori dalla devastazione imposta dall’economia dominante, dalla val di Susa alle altre numerose grandi opere inutili che punteggiano l’Italia. Il libro riprende il titolo di un intervento di Piero Calamandrei il 2 giugno del 1951 e si pone così in esplicita continuità con un pensiero critico che iniziò subito dopo la promulgazione della Costituzione proprio in considerazione dei ritardi, delle omissioni e dei sabotaggi che ostacolarono in maniera sistematica la sua concreta attuazionee.

Non tutto è alienabile

Pur essendo stato scritto da autori di rare competenze storiche e giuridiche non si perde in tecnicismi, ma si pone nell’alveo della passione civile che ha generato la Costituzione, un patrimonio quanto mai attuale. Esso contiene infatti un’appassionata difesa del dettato costituzionale – art. 9 principalmente ma non esclusivamente come ci ricorda il volume che insiste molto sulla importanza degli articoli 41, 42 e 44 del titolo III – ma anche l’indicazione di una fondamentale prospettiva: soltanto con la piena e incondizionata attuazione dei principi della Costituzione si può sperare di superare la preoccupante crisi economica e morale che ci sovrasta.

La prima «sorpresa» che balza agli occhi del lettore è il sottotitolo del libro Arte paesaggio e ambiente. La stesura approvata nel 1948 dell’articolo 9 afferma: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Entrano la storia, la natura e la bellezza, ma l’ambiente, come si vede, non c’è. In quegli anni siamo ancora lontani dall’emergere della contraddizione ambientale e l’assemblea costituente non è nelle condizioni di anticipare un tema che sarebbe emerso con forza a partire dagli anni ottanta. Ma il termine ambiente compare lo stesso nel sottotitolo del libro.

Dimostrano gli autori che questo ampliamento è frutto proprio della ricchezza della visione originaria della Costituzione ed è stato provocato da numerose sentenze della Corte Costituzionale (anche con l’impegno di Maddalena, che è stato membro della Corte e ne è vicepresidente emerito). Le principali sentenze sono puntualmente elencate nel saggio di Settis in cui trova ampio spazio l’ambiente come estensione logica e giuridica delle prerogative di tutela della Repubblica. «Il paesaggio è la forma del territorio e dell’ambiente», afferma ad esempio la sentenza della Corte Costituzionale 196/04. È la dimostrazione, semmai ce ne fosse bisogno, della vitalità dell’impianto culturale della costituzione che, secondo gli autori, va difesa e attuata.

In questa chiave, e cioè ai fini di una vera attuazione, sono due le questioni generali che vengono affrontate. La prima riguarda la titolarietà della tutela: è nella mani della Repubblica e, seguendo il filo dei ragionamenti di Maddalena e Settis, del popolo, della collettività e dei cittadini sovrani. La seconda questione sta nella centralità del concetto di proprietà collettiva che, per sua natura, si colloca fuori commercio, non è un bene patrimoniale alienabile. Riguardo alla prima questione, Salvatore Settis racconta il quadro culturale da cui attinge ispirazione il lavoro della commissione costituente. E si sofferma sui quattro provvedimenti legislativi che avevano tracciato la strada in precedenza: la legge Rava (1909); la legge Croce (1922) e le leggi Bottai (1939).

Nella stesura contrastata della prima legge del 1909, Settis rintraccia in particolare il nodo irrisolto che stringe ancora la soluzione dei problemi: il Senato di nomina regia bloccò gli articoli votati dalla Camera che contenevano norme sul paesaggio e ristabilì i diritti di edificazione e della rendita fondiaria. Questa è una parte fondamentale del testo di Settis (già affrontato nel fondamentale Costituzione, paesaggio e cemento): il mancato raccordo tra tutela dei paesaggi e la normativa urbanistica.

Il saggio, dopo aver ricordato le numerose fondamentali sentenze dell’organo costituzionale, si conclude, come accennavamo, con un importante ragionamento sulla titolarietà dell’esercizio delle prerogative di tutela: «Perciò si può dire che i beni pubblici (nel loro continuum con i beni comuni in proprietà collettiva) sono posseduti a titolo di sovranità dallo Stato-comunità dei cittadini; anzi sono un tutt’uno con l’esercizio della sovranità popolare……perciò le proprietà le proprietà pubbliche e comuni sono per definizione indirizzate a fini di interesse generale, mentre la proprietà privata è consentita, ma costituzionalmente limitata allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti (art. 42 della Costituzione)».

Paolo Maddalena, nel suo ampio saggio, ricostruisce le radici della concezione pubblica del governo del territorio e dell’ambiente. Affronta cioè la seconda questione: il tema dei beni comuni.

Dopo aver ricordato i contenuti cui era giunta la commissione presieduta da Stefano Rodotà: «Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio», l’autore continua così: «Si potrebbe solo aggiungere, al fine di completare il discorso sull’ambiente come bene comune, la frase ’e gli altri beni ambientali così definiti dalla legge’ in modo da far rientrare i beni ambientali considerati come comuni nel demanio ambientale dello Stato, intendendo per demanio la proprietà comune e collettiva di tutti e non l’appartenenza alla persona giuridica Stato». Per Maddalena poi, la categoria dei beni comuni non è elemento neutro rispetto alla proprietà del bene. L’autore è infatti critico verso quelle concezioni che pongono la categoria dei beni comuni in un limbo indistinto tra le proprietà pubbliche e quelle private: i beni comuni, sono invece lo strumento per garantire i diritti di tutti i cittadini. In un momento segnato dal tentativo sempre più insistente di svendere per fare cassa le proprietà pubbliche, il ragionamento di Maddalena è un decisivo strumento per l’affermazione dei diritti collettivi.

Tomaso Montanari, invece, ci conduce in un viaggio nell’altissima tradizione culturale della tutela del patrimonio storico e artistico: tanti e tanto importanti sono gli episodi di questo libro d’oro che si può affermare che il concetto di tutela è ormai connaturato (il filo rosso, lo chiama l’autore) con il costume italiano. Parte da Cicerone per arrivare all’opera di Carlo Fea alla fine del settecento, passando per il senato della Roma medievale che aveva «tutelato» la colonna Traiana all’epoca proprietà di un monastero. Cita Argan quando afferma sulla scorta degli studio da Carlo Cattaneo che «la città è il luogo delle manifestazioni artistiche». E affronta poi le radici del processo di involuzione che sta soffocando il paese. L’autore è molto critico verso le concezioni che definiscono il patrimonio storico e artistico «una risorsa» se non addirittura «il petrolio d’Italia» e afferma, al contrario, che «il patrimonio diffuso è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente…Non una specie di contenitore per capolavori assoluti, ma una rete che congiunge tante opere (…) che sono l’Italia, della quale costituiscono, inscindibilmente, il territorio e l’identità culturale».

La fretta è cattiva consigliera

Il volume di chiude con uno scritto di Alice Leone che ci conduce nella avventura della stesura del principio costituzionale. Dall’ottobre 1946, quando cioè Concetto Marchesi propose la prima versione ci furono, racconta l’autrice, altre nove successive stesure. Dieci in due anni. Il rigore appassionato di uomini politici, giuristi e intellettuali (ad esempio Ranuccio Bianchi Bandinelli che all’epoca direttore generale delle antichità presso il ministero) per confrontarsi ad esempio se fosse meglio utilizzare il termine Stato o Repubblica. L’intero articolo 9 conta 154 battute. 140 battute sono i desolanti tweet diffusi da coloro che ricoprono oggi fondamentali cariche dello Stato e di governo, come il recente buongiorno all’Italia dell’insonne Matteo Renzi.

Non sempre la variabile tempo, e cioè la fretta del fare è un buon viatico per delineare il futuro. È importante, in tal senso, mettere a confronto quella breve e rigorosa stesura rispetto alla vuota esibizione dei trentacinque «saggi» che dovevano cambiare in poche settimane la Costituzione. Tanto veloci quanto superficiali.

Accenniamo infine a un’altra importante questione affrontata da Leone: la conoscenza e il ruolo delle istituzioni. La commissione parlamentare costituente pubblicò importanti volumi con i più interessanti modelli di costituzione allora in vigore, così da aiutare approfondimenti e idee. Una funzione che anche oggi viene svolta dagli uffici legislativi parlamentari: la differenza è che adesso producono montagne di preziosi studi generalmente ignorati da coloro cui spetta la prerogativa di scrivere e approvare leggi.

Nei momenti di crisi come quello che stiamo vivendo c’è bisogno di un progetto complessivo, ci ricordano gli autori. Questo progetto è scritto nella felice sintesi della nostra Costituzione che, da incompiuta, deve farsi compiuta con l’aiuto delle idee di questo prezioso volume.

 

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