Cinéma du Reel, il festival parigino dedicato al documentario continua a essere dopo oltre trent’anni – questa era l’edizione numero 38 – un riferimento per cineasti, produttori, addetti ai lavori, appassionati. La conferma viene dalle sale sempre piene nonostante la settimana pasquale, le gite scolastiche, le folle di turisti che ingrossano la coda davanti al Centre Pompidou, sede del festival, il cui accesso è ora rallentato dal piano vigitpirate: uno alla volta, metal detector, telefonini e chiavi sul vassoietto, borse aperte, niente zaini e caschi ecc ecc.

 

 

«Ti immagini un film così proiettato in Italia?» commentiamo insieme a un amico alla fine di una visione particolarmente sperimentale. Maria Bonsanti, la giovane direttrice, sorride affabile attraversando la caffetteria, atmosfera simpatica e divertente, mentre accompagna in sala Franco Piavoli. Una scoperta per il pubblico d’oltralpe che grazie al festival ha potuto conoscere non solo i «classici» come Nostos o Il pianeta azzurro ma anche i primi film – Ambulatorio, Le stagioni … – e le immagini in anteprima del suo nuovo progetto nel corso di un incontro masterclass.

 

 

Il successo del festival dimostra che in Francia esiste ancora una educazione all’immagine grazie a un mercato diversificato, almeno nella capitale di sale piccole, programmazioni diffuse, multiplex. Poi è vero che i giornali non li legge quasi più nessuno – forse peggio che qui, in metrò tutti col telefono a chiacchierare o a mandare «texto» – però la critica cinematografica ha ancora importanza (così almeno dicono gli amici che lavorano nel settore). E soprattutto a vedere i film ci sono anche gli altri registi, chi ci lavora in questo campo, i produttori indipendenti e più «grandi». In Italia invece è quasi impossibile. Ci si lagna moltissimo della situazione del nostro mercato – «eh, invece in Francia…» – poi quando le cose arrivano nessuno (o pochissimi) le guardano, registi in testa.

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Il festival, dunque: cosa ci ha detto sul racconto della realtà? Intanto l’urgenza di confrontarsi con ciò che si vive o si è vissuto, quello che fa parte della propria esperienza anche in modo non diretto rendendo globale un contesto, un dettaglio specifico. Forse è per questo che il punto di partenza in molti dei film visti sono i luoghi: fisici, sentimentali, intimi, collettivi. In cui cercare i segni di vite cancellate dal tempo e dalla Storia, un paesaggio che la memoria ha reso quasi leggendario, un mito a cui si ha bisogno di credere anche se nel presente sembra impossibile ritrovarne la sagoma.

 

 

 

Sono i luoghi che guidano il racconto di Geographies, Geografie, una carta di storie personali che insieme tracciano quella di un Paese e di un mondo. Siamo nella Turchia imperiale del 1915, la protagonista è una donna armena che quando i turchi cominciano a massacrare il suo popolo, quel genocidio che non vogliono riconoscere, fugge coi suoi figli. Seguiranno anni di peregrinazioni, nasceranno nuove famiglie, ci saranno momenti felici e altri dolori, esili, fughe. Le loro vite ci parlano di un medioriente aperto e mescolato, Libano, Beirut, l’Egitto, il Canada. La regista, Chaghig Arzoumanian cerca oggi le tracce di quella lunga storia familiare e collettiva, le sue immagini, quello che le avevano narrato: un villaggio svanito, quaranta scimmie e un fiume blu.

 

 

Un luogo è quello su cui costruisce il suo film anche Nicolàs Rincòn Gille, colombiano, che nelle periferie di Bogotà raccoglie le voci dei ragazzi assassinati dall’esercito governativo per dimostrare la vittoria sui guerriglieri. In campo ci sono le madri che ne cercano i resti, fuori dal bordo e la voce dei figli uccisi, quasi una lettera d’addio, un Besos Frios.Le donne ostinate non si rassegnano, quella loro ricerca di tracce nella polvere lontana è l’unica arma di resistenza, una richiesta di verità.

 

 

La Permanence di Alice Diop (sold out in tutte le proiezioni) ci porta nello studio di un medico, il dottor Geeraert, che nell’ospedale Avicenne di Bobigny assiste i migranti in Francia. Davanti alla sua scrivania sfilano facce, occhi, tragedie, tentativi di sopravvivenza. Chiedono un certificato per avere l’alloggio, i medicinali con curare i dolori fisici inefficaci spesso per quelli dell’anima. Accanto al medico c’è uno psicologo, a volte dopo le prescrizioni li accompagna per parlare in po’ nella stanza accanto.

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Nessuno dice in modo «frontale» il proprio vissuto che però anche nelle sfumature molto diverse appare comune. Sono fuggiti da violenze, persecuzioni, miseria. Cercano di conquistare una possibilità – spesso senza avere lavoro e un posto dove stare – per ricominciare in qualche modo. I loro «dossier» medici parlano di depressione, di tentativi di suicidio, di ossa spaccate rimesse insieme male, di figli piccoli e di angoscia, di malattie genetiche. Il medico ascolta, cura dove può, si confronta anche con l’impotenza della sua professione.

 

 

La Permanence è un po’ il controcampo di Fuocammare o meglio quello che poteva essere il film di Rosi rimanendo nello studio del medico e che invece non è stato. La regista non inserisce elementi narrativi, non cerca le biografie mae rimane sempre lì. A volte filma i volti, spesso riprende di spalla chi non ha voglia di mostrarsi per imbarazzo o paura. E su quelle facce, nelle sfumature silenziose della loro vita, nello spazio che supera idealmente quelle pareti, il nostro tempo scorre con forza coi suoi conflitti e la sua violenza.