Un ragazzo gay con voglia di famiglia – lui che non ne ha mai avuta una – una ragazza coi capelli rosa che invece dall’oppressivo famiglione (meridionale e tiranno) è fuggita, ora incinta senza sapere di chi. Massacri della vita, solitudini, sogni messi da parte. Un duetto di attori di classe quali Isabella Ragonese e Luca Marinelli, ammiccamenti al presente e alla sua confusione di sentimenti – e condizioni instabili, l’ambizione di renderlo terreno per avventurarsi nei generi narrativi.

Il padre d’Italia, il secondo film di Fabio Mollo dopo il fortunato Il sud è niente (2013), è un romanzo di formazione e un viaggio (che nel sentire più diffuso spesso coincidono) attraverso l’Italia, da nord, la nebbiosa Torino, a sud, la Calabria dei paesini sospettosi, con tanta musica mentre l’eroina si lancia verso il cielo, e virate alla Xavier Dolan che ingigantiscono le facce dei nuclei familiari da cresima e donne in cucina, e le giravolte di spudoratezza esibita dai due protagonisti.

In filigrana, appunto, tante discussioni attuali, la famiglia e le sue possibili variazioni che coincidono col desdeirio più che con la «regola», l’essenza fragile di una generazione trentenne di cui i due personaggi, Mia (Ragonese) e Paolo (Marinelli) incarnano la versione estremizzata.

Gli intenti però, quel tanto di «programmatico» che molte sceneggiature italiane, non risparmia questa saturando le immagini e il movimento narrativo. Se Mollo si fosse lasciato andare maggiormente ai suoi personaggi senza riempirli di riferimenti forse gli avrebbe permesso di essere più liberi. Come al suo film.