Le guerre, tutte, hanno una caratteristica in comune: si possono prevenire, ma una volta iniziate non si riesce più a fermarle. O meglio, si fermano solamente con la sconfitta di una delle parti, una volta pagato il prezzo salatissimo che la vittoria, qualsiasi vittoria, richiede: il sacrificio di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di vite umane. La stragrande maggioranza delle vittime sono civili. E ogni guerra, inesorabilmente, ripete il medesimo terrificante copione.

LE GUERRE CI SONO SEMPRE state, ma alcune sono micce, capaci di innescare nuovi conflitti mondiali. Su queste si concentra l’attenzione dei mezzi di comunicazione delle democrazie occidentali. Un’ingiustizia tra le ingiustizie: a qualcuno, alla periferia del mondo, non solo è toccata in sorte la guerra, ma è toccata pure la guerra dimenticata, quella che non interessa a nessuno. Quella le cui vittime non si fotografano, non si filmano e dunque non si raccontano. Come se non ci fossero. Ma anche ai dannati delle guerre mediaticamente rilevanti tocca in sorte un destino beffardo.

Quello di essere utilizzati come oggetti contundenti, contro chiunque provi ancora a condannare la guerra in quanto tale, come un male assoluto che non può mai essere giustificato. Dinnanzi agli orrori commessi dagli odierni stati autocratici e gruppi terroristici, la guerra è diventata – nella narrazione main stream – una conseguenza quasi inevitabile, alla quale non ci si può sottrarre.

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NOI, SEMBRANO DIRE con voce unanime i governi occidentali, la guerra non l’avremmo (forse) fatta, ma le atrocità altrui ci costringono a farla. E chiunque provi a ribellarsi a questo perverso nesso di causalità è, nella migliore delle ipotesi, un’anima bella che vive fuori dal mondo, nella peggiore delle ipotesi, un fiancheggiatore più o meno consapevole del nemico che ci ha costretto a usare le armi. Anche in questo caso un’ingiustizia tra le ingiustizie: vittime di guerra evocate non per dire basta alla guerra, ma per giustificare in qualche modo altre guerre, sempre più sanguinose. Un vero e proprio tradimento delle vittime e del loro sacrificio.

Il pensiero dominante non rinnega certo la pace, ma la assume – direbbe Zagrebelsky – come valore e non più come principio. Ragionare per valori significa ritenere la pace un fine buono, raggiungibile con ogni mezzo. Ragionare per principi significa, invece, ritenere la pace un criterio che deve orientare ogni singola azione e che esclude in radice la possibilità di utilizzare mezzi contrari al principio. La pace come fine ammette la guerra (la guerra giusta), la pace come principio «ripudia» la guerra (ogni guerra). Esattamente come vorrebbe l’articolo 11 della nostra Costituzione.

Sterilizzato il significato prescrittivo della pace e degradate le vittime a oggetto contundente, l’atteggiamento pacifista è stato a sua volta degradato a mero atteggiamento di convenienza. Davvero odiosa la rappresentazione dei pacifisti come un insieme variopinto di irriducibili idealisti, che vogliono essere lasciati in pace. Come se capire le ragioni della guerra e accettarne la necessità fosse l’unico atteggiamento adulto, l’unica dimostrazione di saper prendere posizione.

NON È COSÌ. IL PACIFISMO, in tutte le sue declinazioni, ha saldissime matrici filosofiche e ha trovato esplicito riconoscimento nelle Costituzioni e nei documenti internazionali del Secondo dopoguerra, quando gli orrori della guerra e il prezzo pagato per sconfiggere il nazismo e il fascismo erano ancora esperienze concrete. Il tempo annebbia i ricordi e stempera le paure: prendere posizione contro la guerra, non è tirarsi fuori dalla contesa, ma mantenere vivo il ricordo di quanti l’hanno vissuta e di tutte le vittime che l’hanno subita. È prendere realisticamente coscienza che una guerra alimenta sempre altre guerre.

È denunciare realisticamente e per l’ennesima volta che, come documentato da Emergency, le vittime di guerra sono al 90% vittime civili e una vittima su tre è un bambino. È pragmaticamente percorrere l’unica strada possibile per creare un diffuso sentimento collettivo davvero contrario alla guerra.

UTOPIA? FORSE, MA anche le utopie hanno scritto la storia. E allora la speranza è che ci sia presto un governo occidentale che – come fece Rosa Parks nel 1955 – sappia «rimanere seduto», quando tutti gli altri sono pronti ad alzarsi per andare a fare la guerra. Si dirà che le strade alternative alla guerra non ci sono. E che il nemico di turno, compiendo le atrocità che ha compiuto, le ha definitivamente precluse. Si invocherà, anche a fin di bene, un «punto zero» della storia, dopo il quale nulla è più come prima. Ma ciò che è un «punto zero» per qualcuno, potrebbe non esserlo per qualcun altro, che rivendica, a torto a ragione, altri «punti zero», magari caduti nell’indifferenza collettiva. La storia è un «processo», conosce svolte epocali, ma non ripartenze da capo. Il pacifismo sta dentro la storia, consapevole che solamente lo sguardo d’insieme può prevenire altri e sempre più tragici conflitti.