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Un nuovo tempio dell’arte

Un nuovo tempio dell’arteIl bar Luce, disegnato dal regista Wes Andersen

Spazi per la visione A Milano, in una ex distilleria degli anni Dieci del Novecento, ristrutturata da Koolhaas + Oma, va in onda la scena delle avanguardie mescolata alla classicità delle riproduzioni grecoromane. Una visita da vertigine alla Fondazione Prada, fresca di inaugurazione

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 16 maggio 2015

È devastantemente bella la nuova Fondazione Prada, appena inauguratasi a Milano, generata dall’idea di architettare un pensiero culturale totale in cui le arti visive si intersecano tra loro e tracciano l’intensità del contemporaneo. Non poteva essere altrimenti, dato che l’obiettivo della Fondazione è creare uno spazio di analisi e di confronto, suggestionato dalla visionarietà architettonica di Rem Koolhaas + OMA e dalla soprintendenza artistica e scientifica di Germano Celant (la programmazione della Fondazione – in particolare la mostra An Introduction –  nasce in realtà da un dialogo aperto fra Miuccia Prada e Celant stesso)

Ubicata nella zona sud di Milano, appare come un’articolata configurazione architettonica che assembla edifici preesistenti e tre nuove costruzioni, ridisegnando la sua origine di distilleria risalente agli anni dieci del Novecento. Vastissima la sua superficie totale: 19mila mq, di cui 11.000mila sono utilizzati per le attività espositive.

Ciò che sorprende visitandola è la perfetta armonia scandita tra passato e presente, senza gli eccessi di deliri decostruzionisti o di malinconici ricorsi, tantomeno di stucchevoli abbandoni glamour. L’aura che trasmette l’intero complesso è quasi rarefatta ma pulsante, evoca le immaginarie piazze dechirichiane e produce l’intensità attitudinale del tempo presente, polluzioni e sinestesie. Uno spazio privato che copre un vuoto (pubblico) riflessivo e operativo sulla contemporaneità.
I vari spazi sono comprensibilmente dedicati a mostre temporanee, tranne l’ormai celebrato Bar Luce, concepito dal genio di Wes Anderson e progettato dallo Studio Baciocchi, che rimane un set scenografico dove giocare a flipper o sfogliare un libro. In tanta reticolarità concettuale colpisce anche la cura dei dettagli e la scelta dei materiali (travertino dell’Iran, il plexiglass parietale, il pavé del cortile realizzato in legno, le foglie d’oro della torre, il neon kossuthiano delle insegne) che si integrano sulle vecchie strutture e le riarticolano: «Abbiamo cercato di fare coesistere le differenze nel modo più equilibrato possibile. Abbiamo risanato i vecchi edifici che non erano particolarmente speciali, senza però stravolgerli e ne abbiamo anche creati alcuni nuovi, utilizzando materiali inusuali come la schiuma d’alluminio, di solito utilizzata per scopi militari», sottolinea Koolhaas.

Fondazione Prada_Bas Princen_5

La circolarità degli spazi e delle mostre offre la libertà di interagire emozionalmente con il percorso senza alcun obbligo di tragitto.
Il Podium è il plesso centrale, una sorta di scatola trasparente, bordata finemente all’apice dalla schiuma d’alluminio, che filtra, specchia, doppia e annoda i profili dei vari volumi architettonici prospicienti e che ospita la mostra clou, Serial Classic, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola. L’idea di Serial Classic in tandem con Portable Classic (in contemporanea nella Fondazione veneziana) sembra spiazzante per una Fondazione d’arte contemporanea, che invece espande il raggio d’interesse al contrappunto archeologico.

Il «Futuro del classico» è sintetizzato in questa pregiata esposizione, in cui Settis ha selezionato opere e frammenti ammalianti sul concetto di ripetizione e sul rapporto tra originalità e imitazione nella cultura romana. All’idea di classico viene solitamente associata quella di unicità ma ciò stride con la molteplicità di copie dei grandi capolavori del passato create nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero. Le 60 opere in mostra si soffermano sugli originali perduti e le loro copie multiple. Dal Discobolo e la Venere accovacciata, il Doriforo, l’Apollo di Kassel, fino a una serie di piccoli busti di terracotta da Medma, città greca calabrese, indugiando sulla Penelope e le Cariatidi nel prototipo dell’Eretteo di Atene. Lo speciale allestimento presenta le opere installate su blocchi di plexiglass trasparenti, mentre al piano superiore, le Cariatidi vengono suggestivamente appese dalla testa, come librassero nel vuoto. È lo stesso Settis a illuminarci in catalogo: «L’Antichità (come qualsiasi cultura) può morire, ma può anche rinascere dalle sue stesse ceneri. Se ci affacciamo all’arte classica con strumentazione archeologica, stiamo dicendo che la narrazione dell’archeologia e dei suoi metodi e la narrazione della civiltà greca si innervano e si legittimano a vicenda. Le procedure (i gesti) della ricostruzione archeologica hanno un implicito carattere performativo, come per le foto di Sherrie Levine nella serie After Walker Evans, si può dire che è solo in assenza dell’originale che la rappresentazione può avere luogo».

Da un montacarichi si sale alla Haunted House (Casa degli spiriti) molto andersiana come mood, per i suoi interni preservati e i suoi esterni favolisticamente ripassati da strati di foglia d’oro. Lo strato dorato, quasi un omaggio a James Lee Byars, crea uno spaesamento urbano con il contesto semi-periferico in cui la Fondazione è allocata. Interferisce nel piatto landscape sottostante come in un dipinto metafisico, ma non snatura ne prevarica l’assetto paesaggistico.
Nella successione dei piani della Haunted House sono installate varie opere storiche di Robert Gober, fra le altre: Untitled Wallpaper e Corner Doors and Doorframe fino a legarsi al primo piano, all’installazione di Louise Bourgeois Cell (Clothes) del 1996, inserita in una deliziosa penombra. La Galleria Sud ospita la mostra An Introduction una sorta di viaggio passionale che narra il gusto e le specificità in cui è sublimata la collezione e da cui è germinato il progetto dell’attuale Fondazione. Qui si inseriscono lavori intimi come, Silver Portrait of Dorian Gray del 1965 di Walter De Maria e Medici Princess del 1952 di Joseph Cornell, quelli epocali di Donald Judd e Barnett Newman, un fantasioso Pino Pascali, un sorprendente Die Nornen / The Norns, 1976 di Edward & Nancy Kienholz fino al tubero video installativo di Nathalie Djurberg.

Robert Gober

Da una insperata porta bianca si entra al Deposito, un luminosissimo hangar antracite profilato di stagliante arancio, in cui sono parcheggiati mirabolanti «veicoli d’artista». È un luogo in cui dialogano artefatto e creazione artistica. Un parking d’effetto in cui sostano le vetture impudenti Life’s a Drag Organs di Sarah Lucas e le sfavillanti Bel Air Trilogy di Walter De Maria oltre a quelle di Elmgreen & Dragset, Carsten Höller & Rosemarie Trockel, Tobias Rehberger e Gianni Piacentino. Continuando a seguire il perimetro, c’è l’antica Cisterna, recuperata nella sua originaria forma arrotondata, asciutta ed elegante, che accoglie Trittico, progetto curatoriale raffinatissimodi Thought Council (Shumon Basar, Nicholas Cullinan, Cédric Libert).

Nelle tre sale susseguenti si raccordano, uno dopo l’altro, Case II” (1968) di Eva Hesse, l’installazione Lost Love (2000) di Damien Hirst e 1 metro cubo di terra, (1967) di Pino Pascali. Le tre opere che si equilibrano in un minimalismo geometrico, convergono – pur nella loro differente tematica – nella forma cubica. Tre distinti universi creativi che divengono un sistema complesso di significato attraverso la forma. Dall’anti-form naturale della Hesse, al perturbante acquario hirstiano, forse uno dei lavori più strepitosi dell’artista, luogo del corpo, della scienza e conoscenza, onirico incubo dell’artista così umano e postumano.

Nello spazio sotterraneo del Cinema è collocata l’installazione permanente di Thomas Demand, Processo grottesco: una riproduzione quasi a grandezza naturale di una delle Grotte del Drago (Las Cuevas del Drach) di Maiorca, affiancata da una miriade di cartoline, libri, immagini, cataloghi utilizzati come fonti sia per la titanica ricostruzione sia per l’opera fotografica finale intitolata il Grotto. Al Cinema uno screening My Inspiration di Roman Polanski.

Serial Classic 1

Ma c’è ancora la Galleria Nord, situata accanto all’ingresso che apre o chiude l’intero itinerario con la mostra In Part, a cura di Nicholas Cullinan che ha privilegiato un nucleo di opere intorno al concept del frammento corporeo ossia nell’utilizzo di una parte che si riferisce a un intero assente. Idea che è vastamente indagata dagli artisti. Seguendo un filo ispiratissimo e sottile, si va dalla fotografia di Robert Rauschenberg Cy+Relics (1952) che ritrae Cy Twombly vicino alla mano dell’imperatore Costantino esposta nel cortile del Palazzo dei Conservatori a Roma, fino a Untitled (2009) di Maurizio Cattelan, un piccolo modello in silicone della discussa scultura in marmo L.O.V.E. (2010) posta davanti la Borsa di Milano. Si continua con sculture di Lucio Fontana e Pino Pascali, la rappresentazione delle rovine nel lavoro di John Baldessari, le silhouette incomplete di Yves Klein, la sovrapposizione di figure nell’opera di Francis Picabia. Oltre ai video Hand Catching Lead (1968) di Richard Serra e Studio Mix di Bruce Nauman.

Prima di uscire, dalla parte opposta e vicino al Bar Luce, si può accedere alla Accademia dei bambini, un altro universo da esplorare.

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