Il Novecento in prima persona
Ritratti Domani a Roma un convegno dedicato alla figura di Bianca Guidetti Serra, partigiana, avvocata, parlamentare e autrice di libri «Il paese dei celestini» sui minori maltrattati negli istituti assistenziali. A cento anni dalla nascita
Ritratti Domani a Roma un convegno dedicato alla figura di Bianca Guidetti Serra, partigiana, avvocata, parlamentare e autrice di libri «Il paese dei celestini» sui minori maltrattati negli istituti assistenziali. A cento anni dalla nascita
Un esempio è un modello da seguire, ma anche un fatto particolare che illustra un’idea generale. La vita di Bianca Guidetti Serra, della quale quest’anno ricorre il centenario della nascita, lo è stata, un esempio, nel duplice significato del termine: sia come punto di riferimento, sia come rappresentazione del Novecento «in una persona sola». Lo si può ricavare dall’autobiografia Bianca la rossa (Einaudi, 2009), scritta insieme a Santina Mobiglia vincendo le ritrosie di chi preferiva esprimersi «dal punto di vista del noi anziché dell’io»: il racconto di una storia individuale intrecciata alla Storia delle grandi vicende collettive. E lo si può riconoscere grazie alle molte iniziative che sta realizzando il Comitato nazionale per la celebrazione della sua figura, come il convegno in programma domani a Roma, a Palazzo San Macuto, dedicato alla sua attività di parlamentare (ore 15, fra i relatori Gaetano Azzariti e Rosy Bindi).
TORINESE, FIGLIA DI UNA SARTA e di un modesto avvocato, la sua «introduzione alla politica» sono le leggi razziali, patite attraverso le discriminazioni subite da Alberto Salmoni, divenuto poi suo marito, e dagli amici che conosce attraverso di lui, come Primo Levi, a lei legatissimo. Orfana di padre, ne segue le orme, laureandosi in giurisprudenza tre settimane prima della destituzione di Mussolini. Diventata nel frattempo comunista, nel capoluogo piemontese partecipa alla Resistenza attraverso i «Gruppi di difesa della donna», occupandosi in particolare della produzione e diffusione del suo giornale clandestino, La difesa della lavoratrice, primo segno dell’attenzione, che mai abbandonerà, nei confronti della circolazione delle informazioni e delle idee. Vive la lotta di Liberazione come lotta politica per l’emancipazione femminile, una lotta che senza soluzione di continuità prosegue nell’attività sindacale dell’immediato dopoguerra: il 14 luglio del ’45 il primo sciopero, perché il governo del Cln aveva fissato l’indennità di contingenza sui salari dei lavoratori prevedendo che fosse più bassa per le donne.
Un «femminismo», quello di Bianca, consegnato alle splendide pagine di Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, uscito nel ’77 per Einaudi, uno dei vertici della storiografia della Resistenza basata sulle fonti orali – che la casa editrice dello Struzzo farebbe bene a ripubblicare. Voci di donne «che sono state “base”», la cui vita, per l’autrice, ha significato «l’affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedeltà al proprio patrimonio ideale e al contempo per l’attenzione ai problemi immediati e concreti». Un «femminismo» non teorico (da cui si sentì sempre distante, lei «emancipazionista») ma praticato nell’impegno politico e in quello professionale. Avvocata dal 1947, un caso fra i tanti che segue è quello di Gigliola Pierobon, processata nel 1973 per aborto volontario.
IL «LUNGO SESSANTOTTO» è l’apogeo del suo ruolo di «militante» nelle aule di giustizia: dalla difesa degli studenti a quella dei detenuti in lotta, dagli obiettori di coscienza alla parte civile nello storico processo per le spionaggio che la Fiat operò ai danni dei suoi dipendenti, vicenda raccontata in un altro suo prezioso libro, Le schedature Fiat (Rosemberg & Sellier, 1984): in quell’immenso archivio con oltre 300mila schede personali compilato illegalmente nell’arco di vent’anni emergeva l’intreccio fra abuso privato e abuso pubblico, perché tra gli informatori dell’azienda figuravano anche funzionari delle amministrazioni locali e appartenenti ai corpi di polizia. E poi il processo più difficile, quello al nucleo storico delle Brigate rosse, da difensore «tecnico» dei brigatisti che rifiutano di avere avvocato.
Negli anni Settanta Guidetti Serra è da tempo comunista «senza partito». Dopo quel fatale 1956 dell’intervento sovietico in Ungheria non rinnovò la tessera, come Italo Calvino: il suo spirito libertario e la sua autonomia di giudizio le impedivano di «tacere e giustificare». Il tradimento, per lei, stava nel silenzio complice, non nella denuncia dei carri armati. L’abbandono del Pci è «un trauma profondo», superato dimostrando «che si poteva fare politica anche senza il partito». Ad esempio nell’impegno internazionalistico: molto del suo attivismo successivo è nelle campagne di solidarietà con l’antifranchismo in Spagna. Ma non solo: è tra le fondatrici, con Norberto Bobbio, del Centro studi Piero Gobetti, e si dedica anche al delicatissimo tema dei diritti dell’infanzia, in particolare dei minori maltrattati negli istituti assistenziali – lasciandone importante traccia ne Il paese dei celestini, volume del ’73 uscito nella storica «Serie politica» einaudiana, quella dalle copertine viola, curato con Francesco Santanera.
DOPO QUELLA DEL PCI non ha altre tessere di partito, ma è «compagna di strada» dei gruppi della nuova sinistra. A metà anni Ottanta Democrazia proletaria le propone di guidare la sua lista al consiglio comunale di Torino, poi di candidarsi alla Camera: deputata dal 1987 al ’90, promuove un’indagine conoscitiva sulle adozioni e una legge per la messa al bando dell’amianto, segue le carceri e l’antimafia. Poi nuovamente il consiglio comunale, da indipendente in quel Pci in cambiamento dopo la Bolognina, e poi nel Pds. Nella biografia confessa di essersi sentita più a proprio agio nelle aule di tribunale che in quelle parlamentari, forse perché in politica «ci si ascolta poco e si parla troppo»: è debole «il quadro condiviso da cui dovrebbero scaturire i criteri per argomentare e decidere», a partire dalla Costituzione spesso ignorata. Un disincantato realismo che, tuttavia, non è anti-politica, semmai il suo contrario: è aspirazione a una politica di tutti e tutte, non di soli professionisti, a una democrazia che «bisogna volere e costruire» ogni giorno, senza perdere «il filo delle sue ragioni, quel filo da riannodare e intessere costantemente, che è poi il senso del legame sociale».
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