Tutto sta già nelle promesse dell’orchestra, nel momento in cui il grande e miracoloso organismo vivente soffia le prime note:gli archi, i legni, gli ottoni, uno stupore avvolto in un alone di pellicola; Ennio Morricone celebra i suoi 60 anni di musica con un tour colossale, che fa tappa a Parma al Parco della Cittadella. Il compositore (a ottobre compirà 90 anni) è uno di quelli per cui risulta complicato trovare aggettivi: ci si limiti al termine Maestro, e tanto basti. Come Bernard Hermann o Nino Rota, teste capaci di inventare mondi, usando lo spartito, di far parlare alla musica quella lingua universale che la rende un fatto così unico, così prezioso, ancora oggi, nonostante questi tempi distratti in cui siamo assaliti dalla spazzatura( dalla trap, a certi proclami ministeriali ) e le nostre capacità di ascolto sono sempre più compromesse.

Le colonne sonore del musicista romano, veri e propri luoghi del Novecento, chiedono proprio questo: di dimenticare gli affanni, le smanie, di allargare il respiro e di ascoltare: per un’ora abbondante le ansie dell’attualità, il nostro narcisismo, tornano al niente che realmente sono, grazie ad un’arte limpida, ad un discorso melodico familiare ma molto meno ovvio di quanto si potrebbe dire ad un primo, distratto ascolto: prova ne siano le fugaci ombre di ragtime che fanno capolino nell’apertura, tratta da La leggenda del pianista sull’oceano; mentre gli archi sono un’onda che sale, sale, nel mare poi come fuochi di artificio all’orizzonte scoppiano brevi lampi di jazz, frammenti di Stravinsky fanno irruzione in un ordito tessuto in ogni punto con certosina cura, e sono trasmissioni di una radio americana in mezzo al mare aperto del suono del grande secolo.

Melodie capaci di fare subito nido nel cuore, semplici ( del resto, anche Mozart arriva all’orecchio in modo facile, scorrevole ), frasi di un discorso sempre fluido, colto ed allo stesso tempo popolare , nel quale però si insinua, felicemente, anche la dissonanza ed è sempre comunque portato avanti con un’attenzione meticolosa per gli infiniti timbri e le infinite possibilità date dal larghissimo ensemble a disposizione. Con l’Orchestra Roma Sinfonietta ed il Nuovo Coro Lirico Sinfonico Romano, i musicisti sul palco sono quasi duecento, assieme alle voci del soprano Susanna Rigacci( nella prima parte) e della portoghese Dulce Pontes . Nello sconfinato territorio che sta tra le spericolatezze del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza ( una delle esperienze più radicali dell’avanguardia italiana di sempre) e gli Oscar per film che hanno fatto il giro del mondo e sono già scolpiti nella storia, si muovono le partiture del compositore romano, uno che ha spalancato universi ed è venerato da musicisti tra i più diversi ( dai Demdike Stare a Alan Bishop, dai Calexico a Mike Patton, che ha curato l’ottima compilation Crime & Dissonance, dedicata alle sue colonne sonore più oscure).

Se l’urgenza sperimentale di un tempo ha lasciato il posto ad un classicismo maturo e a volte un po’ consolatorio resta comunque strabiliante la capacità di questa musica di scorrere come un elemento naturale, di nascondere la complessità della propria architettura perfettamente calibrata in ogni minimo angolo per far crescere un pugno di note in ampi respiri armonici che elevano inni al cielo. Uno sterminato. arcipelago acustico in cui a volte fioriscono isole davanti alle quali si può solo tacere, ammirati ( arie, come quelli di Mission, capaci di scardinare anche le porte più blindate, dotati della stessa potenza di certa lirica), oppure temi affilati e imprendibili, come quello di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Novemila persone rapite, cullate da un vento insolito per la canicola dell’estate italiana: d’altro canto , come diceva Claude Debussy l’arte di orchestrare si apprende ascoltando il rumore delle foglie mosse dal vento.