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Il nostro rapporto con l’antichità è da ristrutturare

Il nostro rapporto con l’antichità è da ristrutturareJoseph Kosuth, Maxima Proposito (Ovidio), 2017, Pescara, Galleria Vistamare, foto Filippo Armellin

Classico e Cancel Culture Qual è stato il ruolo degli autori greci e latini nel giustificare il dominio europeo e nord-americano sul resto del mondo? È una delle domande che negli ultimi mesi hanno scosso l’Università di Princeton nel New Jersey, divenuta caso internazionale

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 28 agosto 2022
Barbara GraziosiPRINCETON, NEW JERSEY

Il Dipartimento di Classics dell’Università di Princeton, dove lavoro da qualche anno, è stato al centro di una lunga serie di dibattiti, sia online che sulla stampa internazionale: quello che colpisce, a prescindere dagli argomenti, è la negatività uniforme del tono – le critiche si accumulano a ogni intervento, senza offrire grandi motivi di speranza. Ora, da qualche settimana, ho preso servizio come nuova direttrice: non è una carica che in alcun modo desiderassi, per ovvie ragioni, ma sembra che la mia elezione sia stata frutto di un raro consenso tra colleghi, decani e rettore. Ci sono momenti in cui temo il complotto: forse l’intenzione è quella di mettere il dipartimento in mano a una straniera, nonché ultima arrivata (nonché prima donna a svolgere il ruolo, nella storia del dipartimento, per mandato regolare piuttosto che breve supplenza) e vedere poi come se la cava. Nella serie Netflix The Chair, tradotto in italiano come La direttrice, i professori di un’università fittizia si assicurano che sia una donna a «tenere in mano la bomba quando esplode».
Il sospetto, la paranoia, la paura del complotto sono sentimenti a cui, di natura, sono poco portata, ma si sono fatti largo, anche dentro di me, sull’onda di sviluppi che si estendono ben oltre il carattere individuale, o l’ambito universitario americano, coinvolgendo molti aspetti della vita culturale e politica su entrambe le sponde dell’oceano. Sono sviluppi che preoccupano e, proprio per questo, si rafforzano nel tempo: la paura fa paura, la mania di persecuzione si autoalimenta, il presunto complotto si estende e complica a ogni pensiero. Non esiste un meccanismo di interruzione all’interno della logica del sospetto; chi soffre di paranoia, al sentire la diagnosi, può sempre concludere: «Sarò anche paranoico ma questo non esclude l’esistenza di un complotto». Non è un bel modo di vivere.
Se, in queste mie riflessioni su sospetto, pedagogia e classici, parto dalla mia realtà locale, qui a Princeton, è perché la conosco meglio di altre. Volendo catalogare i motivi per cui il nostro dipartimento ha fatto notizia mi pare che si possano identificare tre questioni separate, in linea di principio almeno, anche se poi contaminate in pratica. La prima riguarda il ruolo svolto dalla cultura classica nel giustificare il dominio europeo e nord americano sul resto del mondo. Questo ruolo è un dato di fatto: basta pensare all’uso di Aristotele nel giustificare la schiavitù. Ogni tentativo di negarlo o minimizzarlo provoca quindi sospetto. A insistere sulla complicità tra cultura classica e volontà di potenza da parte dei bianchi è stato soprattutto il mio collega Dan-el Pedilla Peralta. Un articolo pubblicato da Rachel Poser il 2 febbraio 2021, nel supplemento del New York Times, ha cercato di fare il punto: He Wants to Save Classics From Whiteness. Can the Field Survive? Dan-el Padilla Peralta thinks classicists should knock ancient Greece and Rome off their pedestal – even if that means destroying their discipline (da notare la metafora della demolizione). Le reazioni sono state molte, alcune di un razzismo terrificante.
Mentre si discuteva di cultura classica, si accendeva un altro dibattito, che aveva anch’esso per protagonista un collega del nostro dipartimento: Joshua Katz dichiarava la propria indipendenza di pensiero, criticando pubblicamente varie misure antirazziste proposte all’amministrazione dell’Università. Il giornale studentesco pubblicava poi un’inchiesta in cui si imputavano a Katz vari episodi di comportamento sessualmente improprio nel corso degli anni, tra i quali una relazione sessuale con una studentessa avvenuta circa quindici anni fa e proibita dal regolamento universitario anche allora. Nuove testimonianze e accuse relative a quel caso sono poi state presentate all’Università che, dopo aver sentito le parti in causa, ha concluso con il licenziamento di Katz. A quanto leggo nel New York Times, l’avvocato difensore aveva presentato il caso come una rappresaglia atta a punire Katz per le sue prese di posizione su razzismo e libertà di parola. Qui però andrebbe forse ribaltata la logica della paranoia: anche ammettendo che ci possa essere stato un complotto per questioni ideologiche, questo non esclude di per sé la possibilità di malefatte sul piano sessuale. Non ho comunque elementi per giudicare la decisione dell’Università, che è stata raggiunta a porte chiuse. Sono le reazioni a preoccuparmi: sia moti di gioia che grida all’ingiustizia mi sembrano fuori luogo. L’aspetto più deprimente della vicenda sta nell’indurimento delle posizioni.
Della terza questione, che ha visto il nostro dipartimento al centro di un turbine di critiche, posso scrivere con maggiore autorità, essendo a conoscenza dei fatti. L’anno scorso abbiamo deciso di abolire l’obbligo di studiare il greco e il latino per gli studenti che scelgono di concentrare i propri studi nel nostro dipartimento. Spiego brevemente la terminologia: negli Stati Uniti, gli studenti non si iscrivono a un corso di studi specifico, ma fanno semplicemente domanda a un’università di loro scelta. Nel caso di Princeton, meno del 6% passa la selezione: gli ammessi possono poi spaziare tra materie diverse, prima di dichiarare un major (che poi a Princeton si chiama concentration) alla fine del secondo anno. Data la pressoché totale assenza dello studio del mondo antico nei programmi di scuola secondaria, l’obbligo di studiare le lingue antiche era ormai diventato uno sbarramento per gli studenti che scoprivano il proprio interesse solo all’università e magari al secondo anno. L’intenzione della nostra riforma non era allora di sminuire l’importanza delle competenze linguistiche, ma piuttosto quella di attirare un maggior numero di studenti a laurearsi con noi, per poter spiegare loro l’importanza delle lingue antiche una volta entrati nel nostro dipartimento. È stato detto, con logica elitaria e a volte specificatamente razzista, che avevamo «abolito» l’insegnamento delle lingue antiche per rendere la vita più facile a studenti comunque incapaci di apprenderle. Niente di più lontano dai fatti. Qualunque studente ammesso a Princeton è capace di imparare il latino e il greco e, dal canto nostro, non abbiamo abolito nemmeno un’ora di istruzione nelle lingue antiche, anzi ne abbiamo aggiunte.
Il numero di studenti nel nostro dipartimento è andato scemando nel corso di vari anni. Non c’è da stupirsi, se si considera la generale crisi delle materie umanistiche, ma anche i vari scandali che ci legano a razzismo e abusi sessuali. La soluzione, però, non sta nell’imporre un obbligo che comunque, visto l’ordinamento universitario, si può facilmente evitare, concentrando i propri studi altrove. La soluzione va trovata a livello intellettuale, accendendo l’interesse per le culture antiche, in un contesto in cui la stragrande maggioranza degli studenti, prima di entrare all’università, non ha dedicato al mondo antico un solo pensiero. Servono allora corsi di seria portata, fatti in traduzione, e bisogna poi spiegare agli studenti che, per dialogare davvero con gli antichi, si deve imparare il loro modo di esprimersi e pensare – in greco e latino, ma anche in accadico (che insegniamo regolarmente nel nostro dipartimento) e altre lingue antiche che si possono facilmente includere nei nostri programmi, data la fluidità dell’ordinamento generale. Limitandoci a leggere in inglese, corriamo il rischio di parlare solo a noi stessi, nella lingua imperiale di oggi.
In maggio sono stata invitata a Roma a parlare di Classics e cancel culture. Il solo invito mi ha provocato una certa paranoia: ecco, ho pensato, vogliono lo scoop sugli scandali di Princeton. Poi però mi sono tranquillizzata, anche perché la locandina mi annunciava come professoressa dell’Università di Durham – dove effettivamente insegnavo fino a qualche anno fa. Non siamo mai così visibili come crediamo e non lo sono nemmeno i nostri problemi. A Roma, poi, ho capito che tutta la questione della cancel culture può sembrare una barzelletta: cancellare il passato? E come si potrebbe mai fare? Effettivamente, ci sono notevoli differenze culturali, tra Italia e Stati Uniti. Dopo la conferenza alla Sapienza sono andata a fare una passeggiata con due amici americani, la violinista Anna Lim e suo marito Michael Wachtel, professore di letteratura russa: in sabbatico a Roma e innamorati della città, sognano di comprare casa e tornarci ogni anno. Mi mostrano un palazzo d’epoca sull’Aventino: c’è un appartamento in vendita, mi dicono, il prezzo è buono… but it’s a tear-down. Mi lasciano sconvolta: come sarebbe «da tirare giù»? Non può essere che un edificio così elegante sia da demolire! Mi rendo poi conto del mio errore mentale di traduzione: in italiano si direbbe «da ristrutturare». Ecco, il nostro rapporto con l’antichità andrebbe ristrutturato. Non si tratta di «tirare giù» statue, come sostiene Rachel Poser e come del resto si faceva anche nell’antichità, ma di trovare un nuovo assetto, lavorando anche sulla ristrutturazione affettiva.
Paul Ricoeur parla di «maestri del sospetto», isolando un filo conduttore tra varie ideologie di fine Ottocento: Marx vede nella cultura e nella religione strumenti di oppressione di classe; Nietzsche presenta la morale come frutto di paura e «spirito del gregge»; Freud mette in guardia contro la razionalizzazione dell’ego, inteso come struttura continuamente minacciata dall’inconscio. Sulla scia di queste correnti di pensiero, lo smascheramento di realtà minacciose, operanti sotto un velo di cultura, è diventata la modalità di lettura più diffusa. Non che manchi di forza. Mentre vari colleghi romani, dopo la conferenza, scherzavano sulla cancel culture, l’impossibilità di abolire l’antico e, quindi, la stupidità degli americani, mi tornava in mente uno studio freudiano e marxista di Giulio Bollati secondo il quale il senso di superiorità culturale degli italiani nasconde vari sensi di insicurezza e inferiorità, nonché oggettiva debolezza rispetto alle grandi potenze prima del nord Europa e poi degli Stati Uniti. Secondo Bollati, si tratta di un retaggio culturale che esprime una riserva di fondo nei confronti della civiltà moderna (per non parlare di quella futura).
E invece è di futuro che vorrei parlare. Mentre esprimiamo i nostri giudizi (e pregiudizi) su nazionalità, razza, cultura, lingua, genere, il compito più urgente è invece quello di imparare a fidarci l’uno dell’altro, per poterci prendere cura dei beni comuni, primo fra tutti il nostro pianeta. È una questione di cui si è molto occupato Bruno Latour, a livello sia filosofico che ambientale. Ci sono poi anche risvolti pedagogici e letterari – e non solo secondo me. In un libro che andrebbe urgentemente tradotto in italiano (Touching Feeling: Affect, Pedagogy, Performativity, Duke University Press, Durham, NC 2003), Eve Kosofsky Sedgwick teme che il sospetto abbia ormai monopolizzato gli studi umanistici. In un capitolo il cui titolo intanto traduco io – Lettura paranoica e lettura riparatrice, ovvero: sei così paranoica da pensare che questo saggio tratti di te – ci ricorda che i maestri del sospetto facevano parte di un’ecologia interpretativa più diversificata rispetto alla nostra, in cui contavano anche la filologia e la teologia, con le loro strategie di recupero, elevazione e condivisione dei testi. Non che Sedgwick auspichi un ritorno al passato: ci consiglia, piuttosto, di cambiare malattia mentale.
Alla logica forte della paranoia che si autoalimenta, ci fa sentire scaltri, ma poi ci isola, contrappone l’atteggiamento debole della depressione, segnato dalla perdita, dal senso di inadeguatezza nei confronti dell’altro, ma anche dalla capacità di ascolto. Purtroppo Sedgwick è morta prematuramente, senza poter spiegare che cosa intendesse per lettura riparatrice, oltre al bisogno di riparare, insieme, qualcosa di rotto, evitando manie di persecuzione e protagonismi individuali. Mentre poi ci si interroga su nuove modalità di lettura, i filologi continuano, come meglio possono, a riparare testi mezzi rotti, provenienti dall’antica Grecia, da Roma, Egitto, Cina, India, Babilonia, Messico. Ascoltano voci lontanissime, appartenenti a persone molto diverse da loro.
Va detto, poi, che nel tentare il recupero di testi antichi ci si sente (e, oggettivamente, si è) inadeguati al compito. Eppure, nonostante le difficoltà spesso anche economiche, data la precarietà diffusa, i filologi continuano a lavorare, non per desiderio di gloria (visto che la filologia ormai conta poco) ma per conservare beni comuni. E qui forse sarebbe il caso di ricordare che i classici, tutti i classici della letteratura mondiale, compresi Gilgamesh e Il libro delle odi, sono testi che non appartengono mai solo al loro tempo o luogo. Sono nostri, chiunque noi siamo, nella misura in cui ce ne prendiamo cura – ma non saranno mai solo nostri.

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