Il nodo dello Stato e il neoliberismo resiliente
Partito democratico Alla conferenza programmatica che si apre oggi a Bologna all’ordine del giorno la questione del ruolo delle istituzioni, della sfera pubblica e della statualità
Partito democratico Alla conferenza programmatica che si apre oggi a Bologna all’ordine del giorno la questione del ruolo delle istituzioni, della sfera pubblica e della statualità
I persistenti problemi economici e sociali dell’Italia – per i quali importanti potenzialità di avvio a soluzione sono contenute nel «percorso» identificato dalla Legge di stabilità per il 2020 – vanno interpretati alla luce della portata delle straordinarie trasformazioni che avvengono nel mondo.
È con tale portata che si dovrebbe cimentare l’attesa conferenza programmatica del Pd che si apre oggi a Bologna, e che dura fino a domenica 17 novembre. D’altro canto, la necessità di un rovesciamento di prospettiva di altissimo livello è avvertita ovunque spingendo a scomodare categorie pesanti come «capitalismo».
MENTRE in agosto l’America’s Business Roundtable (associazione dei CEO delle corporations americane) ha lanciato sul Washinton Post un manifesto proclamante l’abbandono della teoria della shareholders value (il primato della massimizzazione del valore per l’azionista, cardine del neoliberismo), mercoledì 18 settembre 2019 il Financial Times ha intitolato così a tutta pagina la sua copertina: Capitalism. Time For A Reset. Il punto è che il neoliberismo si è mostrato altamente resiliente, anche in combinazione spurie con populismi di diversa natura, ma i suoi esiti rimangono fortemente disegualitari e la sua miscela malata: incremento esponenziale del valore degli assets, droga delle bolle (finanziarie, creditizie, immobiliari), enorme debito privato speculativo, liquidità gigantesca non canalizzata verso gli investimenti, sviluppo tecnologico «non diretto», elevata disoccupazione specie giovanile e femminile.
È SIGNIFICATIVO che, a più di dieci anni dalla crisi del 2007/2008, si riproponga anche una riflessione sulla secular stagnation connessa alle dinamiche del capitalismo, di cui era stato anticipatore Keynes, il quale studiò le tendenze strutturali del capitalismo al sottoutilizzo dei fattori fondamentali della produzione – lavoro e capitale – generanti disoccupazione e sottoinvestimento, sfocianti infine in crisi e/o in stagnazione. Su tali problematiche si fonda l’approccio della varieties of capitalism su cui si è riacceso un dibattito (che contesta la tesi di Streeck della ineluttabile «convergenza» verso l’unico modello neoliberistico di capitalismo). E su questi temi al presente si verifica un ritorno di indagine connesso all’osservazione delle nuove tecnologie, a come esse influiscano sui diritti di proprietà e sull’estrazione predatoria di nuove rendite, con i rischi di un feudalesimo digitale. Dunque, le sinistre sono chiamate ad allestire un bagaglio denso di interrogativi e di esigenze interpretative. Siamo indotti a interrogarci radicalmente su istituzioni, sfera pubblica, statualità. Come può definirsi una nuova statualità? Quali sono le funzioni pubbliche irrinunciabili? Come si esprime la «strategicità» dello «Stato strategico»? Quali le forme della progettualità e della pianificazione democratica? In questione è anche la codificazione che la legge e lo Stato compiono del capitale e del diritto di proprietà.
Lungi dal realizzarsi un effetto egualitario per cui i benefici «sgocciolano» dai detentori del capitale verso il basso, si verifica un effetto opposto: un trickle up verso l’alto dei capital holders, mentre l’innalzamento degli stock market diventa la misura standard universale. Dunque, se molti diritti nascondono in realtà privilegi, i diritti non hanno quella rocciosa fermezza che loro attribuiamo e l’Europa continua a costituire un bacino di «diritto pubblico» da non sottovalutare. In più il nuovo capitalismo ipertecnologico alimenta sconvolgenti tecniche di sovrafinanziarizzazione. E c’è il paradosso della conoscenza, secondo cui essa, invece che favorire le attività diffuse e le piccole imprese che ne sarebbero le naturali destinatarie, premia le grandi imprese monopolistiche. Il paradosso si deve alla natura di «bene non-rivale» della conoscenza stessa che può essere reso disponibile sia come un bene pubblico sia come una merce, il che implica che quando essa non sia disponibile come bene pubblico, vi è sempre uno spreco di suoi ulteriori potenziali utilizzi che non avrebbero comportato alcun costo aggiuntivo e lo spreco si risolve in minori investimenti, minore produzione, minore produttività, minore sviluppo.
QUINDI, il ragionamento non può non allargarsi alla democrazia economica, la partecipazione dei lavoratori alle decisioni di impresa, i vari tipi di impresa che possono essere immaginati. Sempre di più la creazione di valore appare il frutto di processi assai più complessi della sola competizione economica, ragion per cui abbiamo bisogno di una forma più sofisticata di capitalismo, impregnata di finalità più sociali. Della stessa proprietà privata è rintracciabile una evoluzione che, rispetto alla nozione classica di assoluta non interferenza su una piccola sfera di libertà di scelta, la configura come boundle of rights che include anche responsabilità, doveri fiduciari multipli, diversi gradi di partecipazione, diritto di accesso al surplus sociale e così via.
INOLTRE, le nuove tecnologie racchiudono forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, che aprono eccezionali «finestre di opportunità» che possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla «coprogettazione» in disegni alternativi. Ciò che al centrosinistra si ripropone come cruciale è la profondità della trasformazione a cui aspirare e, di conseguenza, la possibilità di una direzione dell’innovazione verso una simile trasformazione e la qualità delle istituzioni democratiche in grado di operare in tal senso.
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