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Il No è scelta politica, non è tecnica giuridica

Referendum Diritto e politica sono due linguaggi distinti ma tra loro perfettamente e necessariamente traducibili. La nostra Costituzione riflette fedelmente questa equivalenza

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 6 maggio 2016

La battaglia referendaria ripropone con forza il grande tema del rapporto tra diritto e politica, che peraltro emerge da ogni poro della crisi italiana. Sulla edizione fiorentina del Corriere della sera del 1 maggio (ma sullo stesso tema poi anche in edizione nazionale del 4 maggio) Ugo de Siervo, presidente emerito della Consulta, dopo essersi proclamato “renziano”, e tuttavia avere espresso il suo no al Ddl Boschi, così continua: «Qui stiamo discutendo della nostra Costituzione. E se questa riforma la migliora o la peggiora. La mia presa di posizione non è originata da motivi politici. In questi ambiti si giudica con una valutazione tecnica e rigorosa». L’affermazione sconcerta: cosa c’è di più politico che il cambiamento di 41 articoli della Carta che definisce la forma della Stato, ossia le regole che stabiliscono la convivenza ( la “casa comune”) tra le diverse forze sociali e politiche e persino religiose che compongono la comunità nazionale?

Lo stesso spirito aleggia nel documento dei 56 costituzionalisti che dopo aver stigmatizzato il fatto, certo di enorme significato politico, che ad una modifica della Costituzione si sia giunti per unilaterale iniziativa del governo e sulla base di precarie maggioranze parlamentari si stempera in una serie di osservazioni di carattere funzionale, che non si ricompongono in un giudizio d’insieme. Niente si dice che a quella modificazione profonda della seconda Camera si sia messo mano dopo l’approvazione di una legge elettorale che comporta una drastica riduzione delle prerogative del parlamento nella direzione del berlusconiano premierato forte.

Profondamente diverso il linguaggio che il nostro diritto costituzionale parlava alle origini della repubblica. In un testo del 1 novembre 1945, Piero Calamandrei afferma : «Alla vigilia della Costituente dalla quale dovrà uscire il nuovo ordinamento giuridico italiano, le questioni politiche che si presentano preliminarmente non possono non essere insieme questioni di diritto costituzionale. In questo campo politica e diritto si completano e sovrappongono: e chi vuole essere orientato politicamente, deve necessariamente orientarsi in termini di tecnica giuridica». Ben lungi dal negarsi qui il significato della tecnica giuridica, se ne enfatizza l’importanza per la sua obbligatoria correlazione con i contenuti della politica. Ma nell’ottobre dello stesso anno, sempre da Firenze, in suo “esame di coscienza” Giorgio La Pira definisce la Costituzione «organizzazione giuridica della società», sostiene che tra i due termini vale un «principio di proporzionalità» e che quindi «anteriori ai problemi tecnici ve ne sono altri di valore più alto che condizionano quelli tecnici».

L’impostazione di questi due “padri fondatori” è opposta a quella che vediamo circolare nelle autorevoli prese di posizione che abbiamo ricordato. Diritto e politica sono due linguaggi distinti ma tra loro perfettamente e necessariamente traducibili. La nostra Costituzione riflette fedelmente questa equivalenza. Gli archivi comunali del triennio 1944-46 testimoniano con grande ricchezza di particolari, nella mia esperienza di storico, come l’Articolo1 sia la registrazione fedele di una invocazione che sale dagli strati più profondi di un popolo distrutto, che vede nel lavoro la sola via per un suo riscatto materiale e morale. L’Articolo 3 esprime la consapevolezza maturata con la immane tragedia della guerra, sia in Europa che negli Usa di Roosevelt, che i diritti sociali sono ormai componente imprescindibile della cittadinanza.

Cosa c’è allora dietro questa ostentata spoliticizzazione del diritto che contrassegna il di battito di oggi?

In primo luogo, direi, un fattore di ordine culturale, di lungo periodo. L’estenuante discussione sulla questione istituzionale si è rivelata sempre più incapace di farsi carico della vera natura della crisi costituzionale che travaglia il paese per l’intreccio di due fattori attivamente operanti su una scala del resto europea: a) una crisi di lunga data dei partiti politici che nelle elezioni del febbraio 2013 è approdata alla sparizione del bipartitismo, unico principio regolatore della seconda repubblica, con tutti i fenomeni di degenerazione “verdiniana” che sappiamo; b) l’onda battente della austerità che priva strati sociali sempre più ampi di ogni certezza sul futuro esponendoli all’avventura. Si potrebbe anche dire che il diritto si è separato dalla politica nella misura in cui il discorso politico si è dimostrato incapace di tenere al centro la complessità di questo intreccio fatale.

In secondo luogo una considerazione di ordine tattico, largamente presente anche nel Comitato per il No. Si vuole “evitare la rissa”, pensando che nel chiuso della tecnica giuridica sia possibile allargare lo spettro dei consensi. Ma l’impostazione che il presidente del consiglio ha dato alla campagna elettorale ha sbarrato ormai la strada a questa presunzione. Si vuole decisamente andare ad uno scontro politico aperto, ma non, come sarebbe anche legittimo, sull’ azione complessiva del governo e sul modo in cui essa ha risposto alla crisi del paese. Dirimente diventa l’indice di gradimento di questo “capo” da carnevale di Viareggio, che ormai prigioniero di una vertigine narcisistica continua a inquinare il discorso pubblico con slogan e parole d’ordine autoreferenziali, prive di qualsiasi contenuto reale. Nella vuotaggine di quel discorso, accozzaglia di frasi fatte ermeticamente chiuse alla realtà, che pure chiama il paese ad una divisione e ad uno scontro aperto, c’è un affronto ai milioni di italiani che si attendono dalla politica una parola che riguardi la loro vita quotidiana, e che non trovandola sempre più oscillano tra l’astensione e la pura protesta.

Dopo quel discorso l’alternativa non è più tra tecnica e politica, ma tra una politica degradata che vuole manipolare e spingere su un binario morto il legittimo confronto nello spazio pubblico del paese, e una politica che si faccia carico di parlare responsabilmente sui pesanti e non facili interrogativi che gravano sul destino del paese. C’è un elemento farisaico nello scandalizzarsi della povertà di cultura giuridica del Ddl Boschi. Mettendosi in cattedra si fa finta di non accorgersi del contesto in cui quel provvedimento cade e da cui prende senso, forse anche oltre l’intenzione di chi l’ha voluto. Quel testo farraginoso non alimenterà solo disfunzioni procedurali, andrà anche, inevitabilmente, a soffiare sul fuoco di una crisi in cui economia, politica e moralità si intrecciano in modo sempre più pericoloso.

Del resto la crisi della democrazia ha ormai assunto una dimensione europea. Dopo la deriva balcanica, ungherese e polacca, è la stessa crisi del Brennero che ci dice quanto l’azione di governo sia prigioniera del ricatto della destra eversiva nella stessa Germania. Se la campagna referendaria saprà evocare con sobrietà e precisione anche questi scenari sicuramente riuscirà a comunicare anche con quella grande porzione di elettorato democratico che ha fatto un passo indietro rispetto alla partecipazione politica. Quella è la vera posta in gioco del confronto di ottobre.

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