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Il neoliberismo non è finito, ma si rafforza: torna l’austerità

Il neoliberismo non è finito, ma si rafforza: torna l’austeritàUn murale di Levalet (Parigi)

Scenari Il Def non utilizza le risorse per investire in assunzioni indispensabili per scuola, sanità, servizi pubblici, ricerca con ricadute positive su pil, entrate fiscali e riduzione del debito

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 15 ottobre 2021

Il parlamento ratifica ancora una volta lo svuotamento del proprio ruolo approvando la risoluzione di maggioranza sulla nota di accompagnamento al Def, limitandosi a chiedere al governo generici impegni che non potranno essere assolti proprio in virtù del fatto che si è votato anche il rispetto delle compatibilità con gli obiettivi di finanza pubblica indicati nella Nadef 2021

In essa il governo ha fissato la scelta di ridurre il deficit del 2021 dall’11,8% programmato, e accettato in sede europea, al 9,4%, 2,4 punti in meno che valgono circa 43 miliardi di mancate spese che si sarebbero potuti aggiungere ai 22 miliardi ora disponibili

SI È IN PRATICA deciso consapevolmente di mettere in competizione tra loro possibili destinazioni delle risorse, quali la rivalutazione delle pensioni in rapporto all’inflazione, un intervento più serio sulle bollette, il finanziamento del reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni, le spese per scuola, sanità e così via dicendo. Una scelta dunque che lascerà insoddisfatte molte aspettative che verranno messe a tacere col ritorno del refrain “I soldi non ci sono”.

Ma Draghi e il ministro delle finanze, oramai gli unici decisori delle politiche economiche del paese, non si sono fermati qui, ma sempre con il varo della Nadef (nota di adeguamento del decreto di economia e finanza) hanno ottenuto la ratifica della scelta, fatta col Def ad aprile, di fissare il deficit programmatico per il 2022 al 5,6%, un livello più basso di altri paesi europei col risultato di avere da un anno all’altro una riduzione delle risorse disponibili di circa 120 miliardi. Non si è voluto nemmeno tenerlo più alto come la Spagna che nel nostro caso avrebbe significato la disponibilità di ulteriori 36 miliardi.

Il governo in questo modo ha precostituito volutamente una condizione di scarsità delle risorse, che non era obbligata, e che determinerà una riduzione di spesa con conseguenze economiche e sociali gravissime, attuata senza che nel parlamento e sui media si siano alzate voci di dissenso ne dalla maggioranza né dall’opposizione.

AL CONTRARIO PARTITI al governo, giornali e tv a reti unificate sono così uniti nell’esaltazione enfatica di una ripresa economica e di un futuro di rilancio del paese resi possibili dalle qualità del presidente del consiglio da non valutare come avrebbero dovuto le conseguenze economiche negative leggibili lì nero su bianco nel documento votato: L’Italia nel 2023 avrà una crescita del Pil solo di 1,1% rispetto al 2019 anno prima della pandemia mentre nel mondo la crescita viaggerà a più 5,6% e in Europa intorno al +3% medio.

È impressionante che queste decisioni siano arrivate nonostante nel 2021 si sia potuto toccare con mano il fatto che il debito si riduce aumentando gli investimenti (non l’aveva detto anche Draghi?) e non come si è pervicacemente, e inutilmente fatto per decenni riducendo le spese. Grazie agli investimenti e alle spese apparentemente improduttive permesse da un deficit storico infatti nel 2021 si è avuta una crescita inattesa del 6% e il debito nazionale che nel documento di economia e finanza di aprile era stato previsto al 159, 8% si attesta nelle stime del governo di ottobre al 153,5%

Non è difficile immaginare gli effetti positivi sul debito e sulla crescita futura se si fossero spesi tutti i miliardi in più di risorse disponibili.
Allora perché il governo non ha approfittato dell’inedita possibilità di confermare l’indebitamento del 2021 all’11,8% previsto e ha perseguito l’obiettivo del 9,4% ottenuto per due terzi attraverso una riduzione netta delle spese rispetto a quanto previsto in aprile? Perché di nuovo riducendo anche il deficit previsto per il 2022 sono state sprecate occasioni importanti per rimettere l’Italia su un percorso che avrebbe allineato la crescita a livelli europei e avviato il paese sulla strada di un risanamento duraturo dei conti pubblici?

PERCHÉ NON SI SONO utilizzate le risorse per investire nelle assunzioni indispensabili per rilanciare la scuola, la sanità, i servizi pubblici, la ricerca che com’è noto hanno immediate ricadute positive sul pil e quindi sulle entrate fiscali accelerando ulteriormente la riduzione del debito?
E non si dica che la colpa è dell’Europa. Il nostro presidente del consiglio, acclamato come il successore della Merkel, avrebbe potuto benissimo convincere, dati alla mano i partners della possibilità di ridurre il debito mantenendo la spesa pubblica a livelli più alti, almeno quanto altri paesi europei.

LA VERITÀ È CHE SIAMO, in tutta evidenza, di fronte a una linea ben precisa di Draghi e di questo governo che hanno scelto consapevolmente di anticipare di un anno, dal 2022 al 2021 la riproposizione di politiche di austerità e poi proseguire sulla stessa via con la riduzione esagerata del deficit del 2024 fissato al 3% e non per esempio, come sarebbe stato possibile, al 5 o al 6%.

Ad aggravare il quadro dei conti pubblici futuri concorrono altri due scelte che vedono uniti i partiti al governo: in primo luogo un progetto di riforma fiscale che non solo non migliora, ma peggiora il sistema attuale, probabilmente spostando ancora una volta la distribuzione del carico fiscale a vantaggio delle aziende, dei ricchi e della speculazione immobiliare, si veda l’eliminazione dell’Irap, alla riforma del catasto, alla sottrazione alla base imponibile dell’Irpef di ricchezze soggette alle varie tasse piatte; in secondo luogo continua a esser negata qualsiasi intenzione di tassare le grandi ricchezze su qualsivoglia versante.

La spiegazione di tutto ciò pur tenendo conto anche dell’ideologia monetarista del banchiere Draghi, non può che essere trovata nella volontà di utilizzare l’argomento della scarsità di risorse a fini di disciplinamento sociale e di adeguamento di tutto il sistema ai principi dell’ordoliberismo.

TUTTE LE SCELTE del governo vanno in questa direzione: lo sblocco dei licenziamenti, la normalizzazione brunettiana della pubblica amministrazione, l’affidamento dell’Itavia a un discepolo di Marchionne, l’utilizzo dei fondi del recovery fund per ristrutturare il sistema produttivo aumentando la precarietà e il comando sul lavoro, la scelta di non intervenire positivamente su salari, occupazione e leggi della precarietà, il varo di una riforma sulla concorrenza destinata a privatizzare l’acqua e tutto ciò che di pubblico è rimasto, e si potrebbe continuare.

Si torna all’antico, si precostituisce artificialmente una condizione di risorse scarse, questa volta per responsabilità nazionale, per poi utilizzare a piene mani la narrazione che i soldi non ci sono al fine di mettere un freno alle rivendicazioni e alle lotte continuando così ad aprire spazi alle destre per alimentare la guerra tra poveri.

 

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