Nel suo Gli anelli di Saturno Winfried Georg Sebald sostiene che la memoria è un frantume che affiora a seguito di uno scompenso, un crollo che ha devastato la nostra vita, aggiungendo però che si tratta di una pura impressione: noi non ricordiamo nulla e la nostra vita non è che un seguito di macerie.

L’osservazione di Sebald aiuta a orientarsi nel saggio titolato L’evento nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Il Mulino, n. 10 della collana «Tracce», pp. 84, € 12,00) con cui Tommaso Pincio fronteggia a viso aperto uno dei punti nevralgici della propria ricerca, ovvero il problema del tempo, qui definito per figura come «il più abile dei ladri».

È una questione che si porta dietro (come è ovvio e come aveva dimostrato anche Calvino nelle Cosmicomiche) l’eterna questione dell’identità, ossia di ciò che non muta nel tempo, a fronte di quel che invece cambia.

Pincio la esplora dal versante della fotografia e delle sue spinose relazioni con la memoria, salvezza e dannazione del sapiens. In questa occasione gli vengono incontro il Blade runner di Ridley Scott e una serie di personaggi e di testi che elegge a compagni di un viaggio, che come ogni viaggio degno di questo nome non porta da nessuna parte se non alla folgorazione secondo cui il percorso stesso è puro spaesamento. Lo dimostra l’indugio sulla prima versione di Blade runner, in cui le foto altrui danno ai replicanti l’illusione di essere dotati di memoria e dunque di ricordi. Affondato in un transeuntissimo presente e consapevole di quella che Zygmunt Bauman ha chiamato «la tirannia dell’effimero», Pincio si sente in dovere di testimoniare un’esperienza del negativo (termine squisitamente fotografico) vissuta quotidianamente e con gli occhi ben aperti.

Il riferimento più evidente è a Benjamin e al noto problema della riproducibilità dell’opera d’arte e della perdita dell’aura, che tra le pagine di Pincio diventa un rovello inesauribile con annuncio di programmatico scacco. La postura dell’autore (in sostanza, quella di un non cultore della materia) fa di questo piccolo saggio un unicum, con molte tappe tra gli scrittori e gli artisti ai quali si è presentato il dilemma della messa in campo del sé all’interno della scena. Una strategia autoriale che Pincio pratica con regolarità. Il risultato al quale approda è la constatazione che, nell’epoca moderna, l’opera protende i suoi tentacoli verso il fuori e porta il fruitore a diventare parte integrante di se stessa.

Ne rende testimonianza, ad esempio, lo spazio riservato alla tecnica adottata da Cindy Sherman, l’artista che fa della sua persona l’ideatrice e l’interprete delle proprie opere, nelle quali svolge i ruoli di fotografa, modella, truccatrice, costumista e scenografa.

Pincio si riferisce alla propria vita come a un album fotografico, che può esibire solo relitti, ovvero  eventi irrelati: da un lato non ricorda le circostanze che diedero luogo a quelle foto, d’altro canto prende atto delle lacune irrimediabili acquattate tra fotografia e fotografia. La situazione si avvicina a quella dei replicanti di Ridley Scott, dove l’io è inaffidabile e preda dello sgomento, come lo sono, del resto, i protagonisti di molti romanzi dello stesso Pincio.

Il turbamento e l’angoscia provocate dalle foto di se stesso bambino sono il risultato dell’attrito tra quel momento – un istante irripetibile e dimenticato – e il futuro, il destino di cadere in un vuoto, cui ogni fotografia è condannata. A sostegno delle sue tesi l’autore chiama Caravaggio (cui ha dedicato qualche anno fa Il dono di saper vivere), l’artista anticipatore della fotografia, che privilegiando e dipingendo l’hic et nunc dello spettatore, ha rinunciato programmaticamente, e con sconcerto dei più, al racconto, ovvero all’idea che l’attimo sia inseribile all’interno di una serie dotata di senso.

L’esperimento sulla memoria tentato da Pincio si presenta come una conferma di questa prospettiva: le foto non possono che testimoniare il vuoto, anzi lo creano, poiché il destino naturale dell’evento non può risolversi se non nella sua sparizione.