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Il nanismo della sinistra e il gigante populista

Certo: è accaduto qualcosa di grave che segnerà la nostra vita e la nostra storia e che si inscrive nel corso iniziato circa un quarto di secolo fa con l’apparizione […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 9 giugno 2018

Certo: è accaduto qualcosa di grave che segnerà la nostra vita e la nostra storia e che si inscrive nel corso iniziato circa un quarto di secolo fa con l’apparizione della stella berlusconiana e la conquista del potere da parte del magnate dell’etere.

NEL TRACIMARE DELL’ONDATA populista c’è il segno di una drammatica sconfitta, di una vera e propria «apocalisse culturale» da cui non si sa come e quando riusciremo a risollevarci. Ma qui si ferma il mio accordo e vorrei spiegare perché.
Innanzitutto, la questione Mattarella. Non va dimenticato il contesto nel quale ha svolto il suo ruolo. Era in corso la formazione di un governo sostenuto da una forza apertamente sovranista e antieuropeista (rapporti di amicizia e di intesa con Le Pen, modelli come Trump, Orban e Putin) e da un’altra che in vista dell’accesso al potere aveva frettolosamente smentito atteggiamenti molto simili tenuti in passato. I 5Stelle hanno fin qui tenuto su molti punti condotte opache, ambigue e variabili fino alla giravolta, dettate da una guida dall’alto (Grillo), e dal segreto delle valutazioni dell’audience compiute da una società privata di servizi informatici (Casaleggio): è nella natura essenziale dei «populismi dell’audience» (Nadia Urbinati) di orientarsi secondo le pulsioni indistinte contro le élite politiche, allo scopo di sostituirsi ad esse, quali che siano i contenuti di tali pulsioni.

IL PRESIDENTE SI È MOSSO PER fronteggiare questa sgangherata offensiva usando le sue prerogative costituzionali, anche se i pareri su questo non sono unanimi. Conosciamo il seguito: quello che Revelli banalizza come «idiozie di Di Maio sull’impeachment», in realtà un’esplicita minaccia fatta gravare sul massimo garante dell’unità nazionale, misura dell’azzardo che il capo del movimento era disposto a giocare in vista del potere. Quanto alla chiamata a raccolta del “popolo” contro le istituzioni, destinata a inquinare la festa stessa della Repubblica, ormai è dietro le spalle ma è stato un segno di cinismo che non possiamo archiviare.

PIÙ IMPORTANTE È IL PROBLEMA dell’esito della crisi. Su un punto Revelli ha ragione: «Costa dirlo, fa male, ma questa ‘cosa’ bicolore, gialla e verde con molte sfumature di bianco e anche di nero, è in fondo, tra tutte le formule possibili, la più consonante con gli umori ‘del Paese’ così come si sono espressi nel voto, nel suo carattere devastante». Ma se così è, come si può continuare a fare del Pd il principale responsabile della catastrofe, come «chi, anche con poco, senza particolare fantasia, solo provando a restare se stesso, e mantenendo un minimo di rispetto per il proprio ‘popolo’, avrebbe potuto evitarlo?» Perché mai il Pd avrebbe dovuto imbarcarsi nell’avventura improbabile di sostenere da sconfitto un governo fondato su un vincitore trionfante e tracotante? Con quale esito se non essere additato come responsabile di inadempienze e fallimenti e sbeffeggiato per il suo ennesimo accordo di potere? Chi – in buona fede – ha esortato il Pd a fare questa scelta, ha come minimo sopravvalutato la sua forza contrattuale nel contesto della sconfitta ignorando la sproporzione tra costi e benefici non per il Pd ma per la democrazia, minacciata da una nanificazione dell’opposizione che è uno dei pericoli incombenti dei populismi al potere.

ARRIVIAMO COSÌ ALL’ULTIMA questione: quella delle cause del disastro. Revelli riconosce che la responsabilità è di tanti, anzi di tutti coloro che lo paventavano e ora lo subiscono. La vittoria plateale e massiccia delle destre «è la conseguenza più diretta della lunga catena di errori, inadeguatezze, atti mancati e misfatti compiuti, diserzioni e abbandoni che sul fronte del centro-sinistra hanno costellato l’ultima fase di auto-liquidazione e di masochismo. E rispetto alla quale nessuno, nemmeno noi, può considerarsi innocente». E’ così, e andrei anche più indietro ma sarei anche più magnanimo.

QUESTA SCONFITTA VIENE DA lontano e dal profondo. Non dal tradimento dei sacri principi ma dalla difficoltà di elaborare un pensiero e una prassi adeguata al mutamento radicale della storia: globalizzazione, rivoluzione informatica e neoliberismo trionfante, sconvolgimento nei modi di produzione e nella struttura del mercato del lavoro. Il capitalismo si è rivelato ancor più vitale di quanto già non sapessimo ( al punto che oggi si dice comunista un gigantesco Paese che ne ha adottato i moduli e ne rincorre lo sviluppo). Il comunismo realizzato, assai peggiore di quanto non avessimo immaginato. Noi – che oggi ricordiamo il Sessantotto – pensavamo di cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato se stesso e ha cambiato noi senza che fossimo capaci di capirlo per tempo e di fronteggiare il terremoto. E’ questo il punto cruciale di una riflessione non autolesionista.

C’È UN PROBLEMA SEMPRE aperto di rapporto tra dinamica degli eventi e soggettività politica. Gli errori degli oppositori furono certo un aspetto della vittoria fascista. L’altro fu la potenza dei sommovimenti della storia, che aveva attraversato una fase di modernizzazione altrettanto accelerata a cavallo tra i due secoli e usciva dalla catastrofe senza precedenti della prima guerra mondiale. Per molto tempo, gli antifascisti si rinfacciarono l’un l’altro le responsabilità della sconfitta trascinando la diatriba in un’interminabile scia di risentimento, gelosie e rivalità. Solo quando si cominciò a chiudere il contenzioso sul passato e a guardare al presente e al futuro, e si cercò di unire le forze per tentare di aprire una breccia nel regime, il futuro diventò possibile. Mutatis mutandis – lo dico anch’io con Revelli – questo insegnamento potrebbe ancora esserci utile, senza guardare alla luna.

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