Il romanzo inizia con il Carnevale di Viareggio, non quello televisivo dei carri allegorici, ma quello vissuto nei rioni. Festa, rito, dissipazione. Il carnevale come antenato dei rave. I protagonisti viaggiano tra Firenze, Viareggio, Milano, capannoni industriali abbandonati dalla produzione fordista e Bologna, soprattutto Bologna. E si viaggia con le droghe, agli inizi degli anni zerozero, prima e dopo il G8 di Genova e l’11 settembre, date che fanno da spartiacque percettivo e sentimentale tra «altro mondo possibile» e spaesamento. Stiamo parlando di Once were ravers (AgenziaX, 163 pag., 14 euro) di Pablito el Drito, nome d’arte di Paolo Pistolesi, uno dei più sperimentali dj della scena milanese, grande lettore e conosciutissimo spacciatore di libri.

NONOSTANTE l’uso di sostanze psicoalteranti dei protagonisti non è una sorta di Trainspotting all’italiana, il libro – seppur distante in tempi, luoghi e situazioni – ricorda più Boccalone di Enrico Palandri, romanzo d’amore ambientato nella Bologna del ’77, e certi fumetti di Andrea Pazienza, per il linguaggio diretto e la narrazione generazionale. Pensate a un incontro onirico tra Maria Corti, per l’attenzione alla lingua e al gergo, Piero Camporesi, per l’attenzione ai riti materiali e collettivi, George Lapassade, per l’attenzione alle dinamiche singolari e collettive della percezione alterata, che discutono intorno a questo romanzo.

AMBIENTATO ai tempi in cui i rave erano un nuovo modo di riappropriarsi di spazi abbandonati, ne racconta lo spirito senza cadere in idealizzazioni. Sballo, musica, sentirsi parte di un tutto, vivere fuori da orari e regole imposti; ma anche down da post-party, domande esistenziali, paranoia e contraddizioni.
AgenziaX due anni fa editò l’interessante inchiesta Rave new world di Tobia D’Onofrio, il cui sottotitolo è L’ultima controcultura, e in effetti dopo il fenomeno del ravers-travellers non c’è stata nessuna cultura nata dagli ambienti underground, e sono passati oramai quindici anni! Il libro di Pablito si svolge nel contesto di quella cultura, ma – nonostante l’autore sia un eccezionale musicologo – dedica poco al muro di suono dei rave, agli stili musicali della tekno, ai famigerati 200 battiti per minuto. È un romanzo neorealista dopato, o alter/realista, che racconta con umorismo il reale e l’immaginario, il sogno e l’allucinato. Indimenticabili e divertenti i passaggi in cui il protagonista Ernesto – raver idealista e pusher equosolidale – incontra, nel reale/paranoico, sbirri e personaggi scombinati, così come nel alter/reale si imbatte periodicamente in William Burroughs, che lo saluta da vecchio amico.

LA CONTROCULTURA americana emerge anche nella rivendicazione dei rave come zone temporaneamente autonome (taz), teorizzate da Hakim Bey in un libro culto di quegli anni, che fece da connettore con l’ala più politicizzata del movimento. «La volontà di potenza come scomparsa» del teorico delle taz riappare nel desiderio di anonimato dei dj, nelle forme di condivisione e di creazione della musica, nell’assenza di palco per le star, nella comunità in divenire.

LA NECESSITÀ di continuare il viaggio e la ricerca è confermato dall’assenza non solo dell’happy ending ma di un finale vero e proprio, la storia si chiude ma lascia le porte aperte alla continuazione. Chissà se Pablito ci regalerà una continuazione raccontata sul filo della sua ricerca musicale, del suo lavoro di libraio on the road e di attivista politico.

Ultimo elemento. Una nota di merito per i collage visionari di Paola Verde, che scandiscono i capitoli e regalano l’essenza visiva di quegli anni.