Il Mudec fra le spire dell’Expo
Architettura Il Museo delle culture aprirà, sfruttando gli spazi degli ex capannoni Ansaldo, il 27 marzo prossimo, dopo anni di incidenti di percorso. Ma le polemiche non sono finite e l'architetto David Chipperfield minaccia di togliere la firma
Architettura Il Museo delle culture aprirà, sfruttando gli spazi degli ex capannoni Ansaldo, il 27 marzo prossimo, dopo anni di incidenti di percorso. Ma le polemiche non sono finite e l'architetto David Chipperfield minaccia di togliere la firma
La scelta di limitare il consumo di suolo riciclando il patrimonio dismesso sembra comparire, seppur in misura assai marginale, nel contesto dell’Expo 2015. All’interno del palinsesto Art di Expo in città si prevede infatti l’apertura del Mudec, il Museo delle culture che David Chipperfield ha ricavato negli spazi dei capannoni dell’ex officina finmeccanica Ansaldo, e a seguire l’apertura della nuova sede della Fondazione Prada, che lo studio Oma ha disegnato riciclando una distilleria dei primi del Novecento. Nonostante i dissapori fra comune e Chipperfield (con tanto di minaccia di ritiro della firma dal progetto, per le divergenze sulle finiture dell’edificio), si avvicina la data dell’inaugurazione del Mudec, annunciata per il 27 marzo, con due mostre curate, tra gli altri, da Fluvio Irace e da Martina Pugliese, la direttrice del museo. In realtà, il debutto delle collezioni permanenti e dell’intero museo milanese continua a essere rimandato, e forse slitterà a data da destinarsi, sicuramente dopo l’apertura dell’Expo.
Sfuma così, ancora una volta, la possibilità della definitiva risoluzione di una vicenda iniziata sedici anni fa, quando nel 1999 l’allora assessore alla cultura Salvatore Carrubba bandiva il concorso per la riqualificazione dell’area ex Ansaldo da trasformare in Città delle culture. L’impianto originario del 1904 venne rilevato nel 1908 dall’Aeg per la produzione di componenti elettriche, per poi divenire nel 1966 proprietà del gruppo Finmeccanica-Ansaldo, impegnato nella produzione di locomotive e carrozze. Vincitore del concorso per la trasformazione di quest’area è stato il progetto di Chipperfield, la proposta che meglio risolveva «il rapporto tra nuovo e vecchio, senza dissonanze, ricercando i propri valori in un non facile contesto».
Se pure in contesti completamente differenti, l’architetto londinese vanta interventi esemplari nel progetto sull’esistente: vincitore nel 2011 del premio Mies van der Rohe per la ristrutturazione del Neues Museum di Berlino, è stato recentemente incaricato per intervenire sulla Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe, inaugurata a Berlino nel 1968. Il progetto di Chipperfield per il Mudec recupera il fronte esistente su via Tortona, e al di là di questa cortina costruisce un edificio introverso, frutto del dialogo tra parallelepipedi duri e luminescenti, rivestiti in zinco titanio, e un elemento trasparente dalla forma organica che sembra sbocciare dalla corte interna. Questo volume centrale, già identificabile con l’immagine del futuro museo, fa da snodo tra le varie sale e diventerà una lanterna per l’intera area nelle zone serali.
I lavori per la realizzazione, iniziati nel 2008 dopo una fase di progettazione durata sei anni (dal 2001 al 2007) non sembrano oggi del tutto conclusi. L’apertura del museo, prevista per il 2013 e poi ripetutamente posticipata, non è ancora avvenuta per via della mancanza di arredi e allestimenti. Disegnati da Chipperfield appositamente per il museo e dunque non acquistabili con la prassi canonica, è stato necessario bandire una gara europea per la realizzazione, fornitura, posa in opera degli stessi.
L’inaugurazione del 27 marzo non sarà che un’anteprima del museo, che si presenterà al pubblico ancora incompleto, tenendo all’oscuro le collezioni permanenti e offrendo degli assaggi con le due mostre di apertura: Mondi a Milano e Africa, due occasioni di confronto tra la cultura lombarda e quella di mondi «lontani».
Nell’idea iniziale, il Mudec avrebbe dovuto offrire nuove aree espositive per l’arte extraeuropea, oggi collezionata nel Castello Sforzesco e nei depositi di via Savona; nell’arco della sua lunga gestazione questa visione ha cambiato connotati e il museo oggi è pensato come un crocevia tra epoche, culture e lingue diverse, dedicato alle interferenze tra contemporaneo e interculturalità. Il progetto di un museo etnografico, di un Quai Branly italiano, ha destato non poche perplessità, sia in riferimento a una storia coloniale esigua, come quella italiana rispetto ad altri paesi come la Francia, sia in riferimento alla musealizzazione della cultura etnografica in un contesto multiculturale come quello attuale.
Altre perplessità sono emerse dalle parole dello stesso progettista, che già nel 2013, in un’intervista rilasciata alla Repubblica, lasciava trapelare il suo scetticismo sulla conclusione dell’opera: «Per ora è un involucro senz’anima che aspetta un referente, un programma di mostre. Manca uno sviluppo funzionale: oggetti, idee, curatori, un direttore (…). L’edificio è costruito bene ma ora inizia la sua decadenza. Nessuno è felice di finire un progetto senza scopo. Ansaldo è una tragedia: la città ha pagato per un museo vuoto e gigantesco». Con queste parole, l’autore del Mudec aveva preso le distanze dai toni rassicuranti usati dalle amministrazioni, restituendo il punto di vista critico di un osservatore coinvolto nella vicenda, ma estraneo o meno avvezzo a prassi e tempi che ormai in Italia sembrano assodati.
Chipperfield ha già lavorato nel nostro paese, nel 2012 come direttore della XIII Biennale d’Architettura a Venezia e precedentemente per la sede del negozio Valentino in via Montenapoleone, a Milano; diversa è, però, la vicenda del Mudec, nella quale l’architetto londinese si è scontrato con un meccanismo molto più complesso, consistente nel recupero di un brano di città dismesso e nella costruzione di un nuovo edificio, il tutto all’interno di una macchina infernale come quella di un expo, con organizzazione, burocrazia e tempistiche italiane. Non stupisce, quindi, una delle sue ultime dichiarazioni: «In passato, l’archittettura italiana ha prodotto cose fantastiche, ma la grande tradizione si è interrotta. Da trent’anni, l’Italia non produce una generazione di architetti. Forse perché fare questo mestiere qui è un incubo».
Un giudizio molto duro, che fa riflettere su un’incapacità, ormai radicata, nel gestire concorsi, eventi e realizzazioni, e che diviene preoccupante nella capacità di rendere questo paese sempre meno attraente per chi lo guarda da lontano. In questo senso un evento come l’Expo 2015 di Milano, già per sua natura complesso e rischioso soprattutto per lo scenario del «post», già indagato e sotto accusa prima ancora di essere inaugurato, si prospetta come una dura partita per il nostro paese, col rischio di un effetto boomerang capace di comprometterne ulteriormente la situazione.
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