Non potevamo certo chiederla a Brian Molko, l’iniezione di ottimismo di cui avremmo bisogno. L’umore è chiaro sin dalla copertina, affollata di idrozoi arenati sulla spiaggia californiana di Glass Beach: se c’è una visione di fondo in Never Let Me Go, ottavo album dei Placebo, è quella di un nichilismo quasi da contemplare, tra le cronache di un mondo post-umano che non rimpiange affatto l’assenza della specie che lo aveva soggiogato.

COSÌ CONTESTUALIZZATI, i singoli che ne avevano anticipato l’uscita si rivelano nuclei narrativi attorno ai quali si articola la vicenda, con la danza degli animali in Try Better Next Time candidata a scena madre: un nichilismo che modula in tonalità maggiore e che per soggetto, inflessione melodica e vocalità adenoidea ricorda da vicino il buon Michael Stipe. «It’s the end of the world as we know it» è la sintesi sottesa; certo, sentirselo dire in questi giorni non è il massimo.

D’ALTRONDE nelle intenzioni della band — sostanzialmente ridotta al duo Molko/Olsdal (con la partecipazione di Pietro Garrone, batterista bolognese residente a Londra) — Never Let Me Go doveva essere estremo, brutale, in fiero contrasto rispetto alla comfort zone dell’ultimo decennio passato a replicare dal palco i soliti menù di successi del passato.

Brutale lo è, almeno in parte, per i contenuti; non altrettanto per la musica, ben più rassicurante delle parole. Se comparato a quello di Infra-Red (da Meds, 2006), il loop di arpa distorta che apre il disco in Forever Chemicals è un chiaro segno di compromesso tra innovazione e tradizione, la quale è ripresa aumentandone i contrasti, come a voler riaffilare angoli precedentemente smussati, alzando il gain alle chitarre e all’elettronica (tanto da farci chiedere se siano davvero archi, quelli su The Prodigal).

Atteggiamento evidente anche in Twin Demons e in Hugz, che si collega a Beautiful James lungo la seconda linea narrativa dell’album, quella che affronta le questioni di identità sessuale da sempre al centro della poetica di Brian Molko.

Il passo, sostenuto lungo gran parte delle tredici tracce, rallenta in Happy Birthday In The Sky, altro snodo emotivo dell’opera, e prende fiato in Went Missing, prima dello spiazzante epilogo di Fix Yourself, quasi una samba chimerica e elettronicamente impassibile, sulla cui clave Brian dispensa il suo ultimo consiglio: «Go fix yourself instead of someone else».