Nel binario 1 delle monumentali Ogr di Torino si eleva un megaschermo, installato sulla parete centrale a filo col pavimento, in cui è sistemata la vasta seduta e dove gli spettatori quasi ipnotizzati si fanno pervadere e quasi risucchiare dal film.
Dallo schermo incombono immagini di un mare nero che si muove su se stesso. È viscoso, simile a un oceano di catrame o petrolio greggio i cui grumi anneriti assomigliano a pezzi di asfalto. È qualcosa che rasenta l’organico ma che, squamoso com’è, sembra artefatto. Spesso la sua cresta si innalza minacciosa fino a coprire l’intero schermo. La linea dell’orizzonte si restringe e il sole, man mano, scompare fino a rimanere una linea sottile.

È L’ALBA O IL TRAMONTO? Il moto ondoso che si reitera potrebbe suggerire la formazione geologica della Terra, oppure un effetto di un disastro ecologico, forse imminente. È sostanzialmente un mondo che disorienta, post-apocalittico e di cui assistiamo a un cattivo presagio in balia delle sue onde anomale.
Tra il trascendente e il terribile si snoda il film di Arthur Jafa, Aghdra (2021) che domina l’intera mostra RhamesJafaCoseyJafaDrayton, curata da Claude Adjil e Judith Waldmann con Hans Ulrich Obrist. Aperta fino al 15 gennaio, è commissionata, prodotta e presentata Officine Grandi Riparazioni di Torino, in collaborazione con la Serpentine di Londra e fa parte del tour della mostra A Series of Utterly Improbable, Yet Extraordinary Renditions.
Aghdra è il potenziale enigma che Jafa (1960, Tupelo, Mississipi) Leone d’oro alla 58/a Biennale d’arte di Venezia, come miglior artista con l’opera The White Album, avviluppa per ben 85 minuti. Inchioda il fruitore in un flusso di coscienza, lasciandolo all’incauta elucubrazione mentale, per afferrarne il senso. In assenza di diegesi, è la colonna sonora a catturare. Potente quanto le immagini, rimbomba su altoparlanti nascosti e dà il ritmo al visuale.

LA MUSICA AFROAMERICANA, così basilare nella ricerca jafiana, incarna quella marginalizzazione derivata dall’egemonia culturale dominante e che riappare nelle sue opere come elemento di appartenenza. In Aghdra è campionata su Agharta, l’album di Miles Davis del 1975, alternato a un rumore forte e ronzante che vibra sul pavimento, a cover di cantanti pop black, rallentate e distorte fino a divenire irriconoscibili. Tra esse, canzoni popolari come Love Don’t Live Here Anymore (1978) di Rose Royce. Del resto, la significazione della musica si evince dal titolo che assembla i nomi di tre famosi chitarristi: Arthur Rhames, Pete Cosey, Ronny Drayton.

LA METAFORA che si impenna è costruita sulla pura astrazione e centralizza la sua visione implacabile nonché dolente sulla dimensione esistenziale della blackness in un mondo anti-black. Il suo lavoro abbraccia la complessità delle relazioni razziali, la tensione tra le forme di espressione culturale e la specificità e l’energia della black culture. Le onde del mare che si gonfiano vorticose sono uno stratagemma concettuale per riportare il trauma della schiavitù e della repressione sui neri con le aggressioni quotidiane.
Il film realizzato con la Buf (la compagnia francese specializzata in Cgi e nota soprattutto per aver realizzato Matrix) è totalmente animato digitalmente e incute un terrore superbo, poiché galleggia tra i suoi nei temi. Il titolo è inventato ed è un mash-up di nomi di mostri come Godzilla e Mothra, entrambi originariamente realizzati in risposta ai bombardamenti atomici statunitensi su Hiroshima e Nagasaki nel 1945.

IN UN’INTERVISTA a Rinaldo Walcott (studioso dei Black Studies) Jafa ha raccontato l’origine di Aghdra: «Mio figlio è andato a vedere Godzilla a teatro a Tokyo e mi ha fatto riflettere. Se i giapponesi sono le uniche persone a cui è stata lanciata una bomba atomica addosso e Godzilla è stato un tentativo, a livello psicosociale, di incarnare il trauma di quell’esperienza, anche io potevo tentare di incarnare l’esperienza nera in termini non narrativi».
Nel buio devastante delle Ogr, si accede al film attraverso un labirinto, ricoperto da billboard di musicisti black e di immagini che ci riportano alla perseverante brutalità della polizia e ad azioni di razzismo.

TRATTE DAI PICTURE BOOKS (la serie di immagini sulla black culture che l’artista ha iniziato raccogliere a metà degli anni ’80) detengono una straordinaria forza disturbante, nella loro crudezza e intensità evocativa. Peraltro già utilizzate in opere come Love is the Message, The Message is Death (2016), Apex (2013) e il clip di Kanye West Wash Us In The Blood feat. Travis Scott (2020).
In occasione dell’opening, l’artista ha ideato la performance di Jason Moran, Okkyung Lee e di Melvin Gibbs. Jafa, polimorfo artista (dalla fotografia al video e alla scultura), filmmaker, produttore e photobook-maker, è anche il co-fondatore di Tneg, lo studio per la ricerca e la promozione del black cinema e della black music del ventunesimo secolo.