Il mondo è bellissimo, tra Luca Attanasio e Ferlinghetti
Altro che la Farnesina L’Africa e il Congo ce li dimenticheremo presto e insieme a loro anche il coltan, estratto con paghe da fame da popolazioni schiavizzate, che fa funzionare telefonini e computer
Altro che la Farnesina L’Africa e il Congo ce li dimenticheremo presto e insieme a loro anche il coltan, estratto con paghe da fame da popolazioni schiavizzate, che fa funzionare telefonini e computer
Ogni volta si vorrebbe immaginare la morte, almeno accidentale, dell’ipocrisia, che invece sopravvive a ogni temperie. In decenni da inviato di guerra ho scritto purtroppo questo pezzo troppe volte nel ricordo di persone che conoscevo e di amici cari uccisi sul campo. Le recriminazioni sono comprensibili ma inutili e forse prive di senso. L’ambasciatore Luca Attanasio è stato ucciso in Congo proprio dove voleva portare una speranza di vita. Non una morte accidentale ma la conclusione tragica di un percorso professionale e personale che merita grande rispetto.
Non è stata certamente la sua, quella del carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista del Pam Mustapha Milambo, una morte per caso. Attanasio non ha commesso un’imprudenza e se nulla fosse accaduto – come niente era avvenuto la settimana prima sulla stessa strada a un convoglio del Pam con alcuni giornalisti – probabilmente nessuno o quasi avrebbe letto il suo rapporto e saputo dei progetti del World Food Program nel Nord del Kivu.
Per chi non ha mai messo il piede sul terreno è difficile comprendere che ci sono luoghi e situazioni in cui il pericolo e la morte ti camminano sempre a fianco. In Congo, come in Somalia, Angola, Iraq, Siria, Kurdistan, Afghanistan, nei Balcani. L’ipocrisia è come al solito che dimenticati i «nostri» morti si passa ad «altro». In fondo come nel poema di Ferlinghetti: «Il mondo è un posto bellissimo/ in cui nascere/ se non t’importa che qualcuno muoia sempre o forse solo muoia di fame/ ogni tanto/cosa che poi non è così terribile se a morire non sei tu».
L’Africa e il Congo ce li dimenticheremo presto e insieme a loro anche il coltan, estratto con paghe da fame da popolazioni schiavizzate, che fa funzionare telefonini e computer, venduto per non sporcare le mani delle multinazionali nel confinante Ruanda (dove il coltan non c’è), alleato degli Usa e beniamino del Fondo monetario.
Al massimo come nel caso dell’ambasciatore Attanasio, del carabiniere Iacovacci e del loro autista vengono imbastiti funerali di stato che devono servire come una sorta di cerimonia salvifica in cui piangere un po’ e poi affidarsi con fiducia alle “teste voltate” sul mondo di chi detiene il potere. Ricordo che quando nel novembre 2001 Maria Grazia Cutuli venne uccisa con Julio Fuentes sulla strada tra Jalalabad e Kabul, che avevo percorso soltanto tre giorni prima, la giornalista italiana fu nominata dal suo quotidiano “inviata sul campo”.
Siamo assai inclini a riconoscere i meriti e a glorificare le persone post mortem. Ora c’è una targa in sua memoria all’ambasciata italiana di Kabul e una scuola a Herat intitolata a suo nome, posto dove, non si sa perché, teniamo ancora 800 soldati. Come mi ricordo assai bene di Ilaria Alpi uccisa in Somalia, minori riconoscimenti per il reporter free lance Raffaele Ciriello, ucciso nel 2002 a Ramallah dalla raffica di un carro armato israeliano, e di Antonio Russo ammazzato in Georgia nel 2000, unico giornalista nel ’99 a restare in Kosovo durante la guerra; e per il dimenticato fotoreporter Andrea Rocchelli ucciso nel Donbass dall’esercito di Kiev.
Nel caso di Raffaele la magistratura chiese al governo israeliano di far conoscere i nomi dell’equipaggio di quel carro armato ma ne ebbe un rifiuto nonostante il trattato di collaborazione giudiziaria stipulato tra i due paesi. Caso archiviato. Così come gli americani archiviarono l’uccisione di Nicola Calipari e il ferimento di Giuliana Sgrena nel 2005 a Baghdad: quel giorno passarono su quella strada 30 auto ma una sola venne mitragliata dai soldati americani. Anche questo sarà stato un caso.
Sono le nostre teste voltate il vero problema su cui ogni tanto riflettere. In queste ore di lutto e contrizione per l’Italia l’Agenzia Nova ci informa che con il nuovo governo il ministero degli Esteri, la Cooperazione e gli imprenditori italiani parteciperanno agli appalti dell’Azerbaijan per la ricostruzione dei territori a maggioranza armena «riconquistati» del Nagorno-Karabakh.
Per i 100mila profughi armeni neppure una parola. E forse non sarete contenti di sapere che l’Italia ha venduto all’Azerbaijan, già sostenuto da Turchia e Israele, anche aerei militari, in barba alle nostre leggi che vietano vendite di armi a Paesi belligeranti. Mentre l’Armenia sconfitta ribolle alle prese con un tentato golpe.
Le nostre teste voltate a guardare sempre da un’altra parte dovranno anche dirci che intendiamo fare con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salma cui tutti hanno stretto sorridendo la mano all’ultimo G-20. Bin Salman, secondo un rapporto della Cia che reso noto ieri, è coinvolto nell’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, torturato e fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul nel 2018.
Vedremo se gli Stati uniti e l’Occidente avranno questa volta il coraggio minimo di trarre delle conseguenze nei confronti del maggiore acquirente di armi Usa ed europee e di un principe responsabili di bombardamenti e dell’uccisione di decine di migliaia di civili in Yemen avvenuta per altro con l’attiva collaborazione dell’America di Trump. Di che sorprendersi, è il «rinascimento» su cui galleggia il «nostro» ben sussidiato Matteo Renzi. E adesso vediamo se Biden archivia davvero l’eredità di Trump, pur sapendo che il Patto d’Abramo resterà un pilastro anche della sua politica mediorientale.
Il mondo è un posto bellissimo, cantava il poeta della beat generation, in cui gli «altri» muoiono: l’ambasciatore non voltava la testa dall’altra parte per non vederlo. Non facciamone un santino ma un esempio.
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