Cultura

Il mondo del lavoro scandagliato dalla letteratura

Il mondo del lavoro scandagliato dalla letteraturaGiuseppe Di Vittorio

Premio Di Vittorio Ha vinto «Con giusta causa» di Danilo Conti: è il racconto dei «casi» che tratta un avvocato

Pubblicato un giorno faEdizione del 5 ottobre 2024

Il lavoro sta sotto gli occhi di tutti ma – come la lettera rubata di Poe – è un oggetto quasi invisibile. Vi si gira intorno, si fanno profezie sul suo futuro, se ne dichiara la scomparsa (attraverso l’automazione) con euforia o lamentazione, ma ne sappiamo tutti pochissimo. Bene ha fatto la Cgil ha inventare il premio Di Vittorio per il romanzo migliore sul lavoro.

NELL’OPERA DI MARX troviamo su questo tema un’ambivalenza originaria: sia la liberazione del lavoro e sia la liberazione dal lavoro (nell’Ideologia tedesca e qui e là). Da una parte il lavoro come primo bisogno dell’uomo, dall’altra il lavoro come fatica e coercizione, che lo sviluppo delle forze produttive un giorno riuscirà ad abolire. L’essere umano è fatto non per lavorare ma per contemplare la natura, la vita e la bellezza.

Il premio intende mettere al centro la letteratura della working class, le opere con il mondo del lavoro al centro della narrazione. Sia quelle che narrano il lavoro dall’interno, attraverso la testimonianza personale, dai racconti Gymkhana-Cross di Luigi Davì a Tommaso Di Ciaula e la collana balestriniana dei Franchi Narratori degli anni ’70, sia quelle che lo esplorano dall’esterno, in modo immaginativo e accurato, da Memoriale (1962) di Paolo Volponi, vertice della letteratura industriale anni ’60 (Ottieri, Parise, Mastronardi…) ad Acciaio (2010) di Silvia Avallone.

In Italia il mondo del lavoro ha avuto una straordinaria rappresentazione letteraria, dalla letteratura industriale già citata a quella postfordista dei Nori, Nove, Murgia, fino all’intenso Amianto di Alberto Prunetti, nel 2014 (sul padre operaio all’Ilva di Follonica). La scelta di dedicare un premio a questa rappresentazione appare quanto mai opportuna.

COLPISCE nei sette titoli finalisti della prima edizione una estrema varietà di tematiche e di setting, cui corrisponde altrettanta varietà di stili, opzioni formali e strategie narrative.
Danilo Conte – che ha vinto – nel suo Con giusta causa mette in scena un avvocato del lavoro, Chiton (in parte autobiografico), che ci racconta tutti i «casi» che tratta, con una pietas degna di Victor Hugo e uno sguardo malinconico degno del Marlowe di Chandler. Elisa Audino – menzione della giuria scientifica – con Orata in affitto opta per una collezione di istantanee, per un poema narrativo che ci restituisce una quotidianità anch’essa frammentaria e spezzata, come il suo parlato. La protagonista potrebbe incontrare la «ragazza Carla» del celebre poema di Pagliarani. Memorie di una famiglia di guantai di Antonio Caiafa è un reportage narrativo, di acuminata precisione antropologica, cronaca di un quartiere napoletano e della sua mutazione, quasi da storico delle Annales. Cronache della sesta estinzione, di Stefano Valenti, il testo con maggiori (e fondate) ambizioni letterarie, si pone come diario di un Robinson Crusoe del sottosuolo, un intellettuale figlio di un muratore, che abita un furgone e si ritrova in un mondo inospitale. Trash di Martino Costa gioca attorno allo smaltimento dei rifiuti, tema immenso – che Dickens rese universale con il suo romanzo più bello, Il nostro comune amico – e scrive una storia avvincente, picaresca, con personaggi da romanzo latino-americano (dove «rifiuti» sono anche i marginali). I 35 giorni della città di Torino di Cristiano Ferrarese si offrono come monumento letterario a una memorabile resistenza operaia contro la protesta silenziosa di 40mila colletti bianchi (alla Fiat nel 1980). Un evento che ha cambiato la nostra storia. Accanto alle opere edite, c’è poi l’altra sezione del premio – i racconti inediti –: i 10 finalisti, destinati alla pubblicazione con Alegre), costituiscono un prezioso diorama del rimosso sociale.

TORNIAMO alla doppia accezione del lavoro, presente nella tradizione marxista. L’impressione è che qui prevalga ovunque l’idea di lavoro come maledizione biblica, di cui è forse possibile liberarsi. C’è la voglia di ridimensionarne il peso nella nostra vita, per occuparci finalmente di tutte quelle cose che ci stanno davvero a cuore, e che da sempre animano ogni narrazione umana.

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