Il mondo che abbiamo perduto
Memoria La Resistenza è stata espunta dalla discussione politica. E il paese si avvia a passo veloce verso il precipizio di una repubblica presidenziale
Memoria La Resistenza è stata espunta dalla discussione politica. E il paese si avvia a passo veloce verso il precipizio di una repubblica presidenziale
Il 25 aprile è il mondo che abbiamo perduto. Non si vuole qui riaprire una delle tante lamentazioni sulla Resistenza tradita, al contrario. È stato un errore legare troppo strettamente e troppo a lungo quella data a miti di guerra guerreggiata e ad armi in pugno, senza cogliere il significato più vasto di un processo di cui la Resistenza era parte, non il tutto. Era la costruzione di una democrazia, per la prima volta nel nostro paese. Al Nord come al Sud. Era democrazia che si organizzava, in grandi partiti popolari, in sindacati, in leghe contadine, in associazioni, di donne – per la prima volta – e di uomini. Che si dava una Costituzione nella quale non solo si affermavano diritti di libertà e di socialità ma si prevedevanogli strumenti per promuovere condizioni di eguaglianza e di libertà dal bisogno. Che si dava un’architettura istituzionale basata sulla democrazia rappresentativa, dove le assemblee avevano in primo luogo il compito di scrivere le leggi e non di fare da supporto a un governo. E un Parlamento che rappresentava fedelmente la società, basato sulla civiltà del proporzionale, dove il voto del signore valeva quanto quello del contadino, senza trucchi e inganni.
Per almeno tre decenni questo processo è andato avanti, con grandi difficoltà e pericoli, con lotte anche aspre, con sommovimenti da cui la società italiana era uscita più matura e consapevole.
Di questo mondo non è rimasto più nulla, se non frammenti destinati probabilmente a venire spazzati via con fredda determinazione.
I presupposti della repubblica si sono lentamente dissolti e snaturati, trasformandosi in qualcosa d’altro. La stessa società sembra essersi frantumata in una mucillagine informe fatta di egoismi e particolarismi, di interessi piccolissimi e talora meschini. Non esistono più grandi partiti popolari, e le formazioni che esistono non sembrano più proporsi di cambiare la società, ma di adeguarsi all’istante mutevole di un consenso vero o presunto. Non esistono più deputati scelti dal popolo, ma nominati da singoli padroni o da apparati che fanno riferimento solo alla propria logica di conservazione. Le forme alternative o sussidiarie che vengono tentate producono un personale di bassa qualità e cultura, non più formato dall’esperienza politica ma selezionato dall’esiguo consenso di cricche o da comitive di amici.
Nello stesso tempo, il nostro paese è tornato ad essere laboratorio inquietante di soluzioni che furono plebiscitarie e populiste nel passato più vicino o addirittura totalitarie nel presente. Di un totalitarismo nuovo e inedito, che non frappone più alcuna barriera o distinzione tra «parte» e «totalità», pretendendo di incarnare il volere dei cittadini senza mediazioni, e senza avere neppure alle spalle un partito in carne ed ossa, come era nei modelli classici.
La politica si è svilita da sé, senza avere la forza di un colpo d’ala, ma ha anche visto accanirsi contro un potentissimo pregiudizio fatto di antiche e modernissime forme di qualunquismo. La rivolta contro la casta, contro i partiti, contro la rappresentanza non è un’alternativa al degrado della repubblica ma è una spinta potente e ulteriore verso il precipizio.
Ci stiamo avviando verso una forma di repubblica presidenziale che potremmo definire preterintenzionale, poiché il Presidente nulla ha fatto per perseguirla, ma si è trovato già da due anni ad assommare il ruolo di leader politico effettivo a quello di Presidente, che è stato riconfermato in presenza di una crisi della politica, di una sua incapacità di proposta e di risposta che non hanno precedenti. Ma il quattordicennato non è compatibile con l’istituto repubblicano, ne segnala la crisi e lo snaturamento, lo scivolamento in direzione di una monarchia elettiva.
Nel discorso di accettazione di Giorgio Napolitano sono risuonati gli accenti più allarmati e più duri, talora brutali, contro l’insipienza di una politica assente e del ceto politico che questo vuoto ha coltivato. Vogliamo sperare che quel discorso venga ricordato in futuro come un requiem per la Seconda Repubblica. Ma anche che le parole di richiamo alla democrazia parlamentare, alla necessità di mediazione e di confronto contro la disgustosa retorica sull’«inciucio» possano rappresentare l’avvio di un ritorno effettivo alla democrazia rappresentativa, non la spinta ulteriore e decisiva al suo seppellimento.
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