Il mondo botanico è migrante
Intervista Un incontro con l'artista brasiliana Maria Thereza Alves, ospite all'iniziativa Rural Design Week. «Terra, sassi, legni, sabbia, utilizzati come zavorre per stabilizzare il peso del cargo trasportavano i semi dai luoghi di provenienza, che poi crescevano a fianco della flora locale»
Intervista Un incontro con l'artista brasiliana Maria Thereza Alves, ospite all'iniziativa Rural Design Week. «Terra, sassi, legni, sabbia, utilizzati come zavorre per stabilizzare il peso del cargo trasportavano i semi dai luoghi di provenienza, che poi crescevano a fianco della flora locale»
I progetti di Maria Thereza Alves si basano su istanze investigative che nascono dall’analisi della storia dei luoghi da lei visitati. Un’opera di scavo che intende far riemergere la storia coloniale e la rete di relazioni commerciali dei diversi paesi in cui ha operato (Brasile, Messico, Senegal, Europa) attraverso indagini di carattere geografico, storico e socio-economico.
Nata a San Paolo, in Brasile, nel 1961, Alves si trasferisce a New York con la famiglia per fuggire alla dittatura militare. Nel 1986 è tra i fondatori del Partito Verde. L’interesse per l’ambiente naturale e la difesa di diritti umani delle popolazioni indigene è presente in tutti i suoi lavori, che si sviluppano attraverso pratiche relazionali che hanno portato alla realizzazione di installazioni site specific, disegni, fotografie, video e film saggi. Sono numerose le mostre a cui ha partecipato, tra cui Manifesta 12, Documenta 13), Liverpool Biennial, New Museum of Contemporary Art di New York.
Maria Thereza Alves è stata tra i relatori della prima edizione della Rural Design Week, svoltasi a San Potito Sannitico.
Istanze cartografiche e genealogiche sono al centro delle sue indagini artistiche. Nel progetto «Seeds of Change» viene indagata, attraverso lo studio delle sementi, la storia sociale di diverse città europee. Possiamo affermare che ogni seme è una sorta di archivio che contiene, al proprio interno, la memoria del passato e le potenzialità del futuro, testimone dormiente che parla di migrazioni e immigrazioni, di innesti e mutazioni?
Certo, la botanica Heli Jutila ha affermato che i semi possono restare «vivi» nel terreno per decine o anche centinaia di anni in uno stato di dormienza. Seeds of Change nasce a Marsiglia nel 1999 ma l’ho sviluppato nel corso degli anni in diverse città portuali, come Liverpool, Bristol, Dunkerque. Ho compiuto studi di carattere botanico, riguardante la flora arrivata in Europa sulle navi mercantili, perché terra, sassi, legni, sabbia, materiali utilizzati come zavorre per stabilizzare il peso del cargo trasportavano al loro interno i semi presenti nei luoghi di provenienza, che poi crescevano a fianco della flora locale.
Dopo aver localizzato i luoghi in cui venivano depositate le zavorre, basandomi su ricerche di archivi e su mappe storiche, ho raccolto frammenti di terra per osservarli e permettere ai semi di germogliare. L’importanza delle sementi portate dalla zavorre sono determinanti nel mettere in discussione questioni riguardanti l’identità e la storia coloniale di un luogo, anche se raramente viene riconosciuta. Come possiamo definire un seme «nativo»? Quali sono le narrazioni socio-politiche che determinano il concetto di appartenenza? Sono queste le domande a cui cerco di rispondere con le mie opere.
Un altro lavoro legato all’osservazione storica è «Wake for Berlin», dove invece il focus è posto su una città in trasformazione…
Dopo la caduta del muro, Berlino è divenuta un cantiere a cielo aperto e la rimozione dell’asfalto ha riportato in superficie sedimentazioni dormienti, come se fossero una banca di semi. É stato un lavoro impegnativo in cui ho analizzato diciassette diversi siti, tra cui Platz der Republik, Unter den Linden, Friedrichstrasse. Penso a Wake come a una concatenazioni di storie che si intrecciano tra loro e che si arricchiscono vicendevolmente. Un esempio è che nei pressi della chiesa degli ugonotti in Gendarmenmarkt ho trovato piante francesi che testimoniavano la presenza di semi portati dagli Ugonotti dall’Alsazia-Lorena, regione di frontiera che nel corso dei secoli è passata sotto il controllo di diversi paesi. Nel 1685 il principe Federico Guglielmo di Brandeburgo li aveva accolti durante la fuga in Germania a seguito alle persecuzioni nella loro regione d’origine. Wake for Berlin parla della storia tedesca, ma anche del nostro presente, perché mentre prelevavo frammenti di terreno da un pozzo che si trovava nei pressi di Charlottenstrasse, mi rendevo conto che il vento lo stava innestando con nuovi semi. In fondo ogni nostra azione è una narrazione in divenire.
Come nasce «Recipes for Survival», lavoro fotografico realizzato nel 1983, a 21 anni e pubblicato solo lo scorso anno?
La mia famiglia discende da indigeni, schiavi africani e da europei di origini sconosciute. In Brasile la storia ufficiale ci obbliga, come soggetti, a diventare e rimanere delle «alterità» rispetto all’identità europea. Con Recipes for Survival ho voluto contrastare questa modalità riduzionista, insita nella storia coloniale del paese per restituirne la complessità. Ho chiesto alle persone che ho fotografato, alcuni di loro indigeni, di decidere il modo in cui volevano essere ritratte e di aggiungere testi alle immagini, per renderli agenti attivi della loro storia e non semplici testimoni dello sguardo del fotografo.
Può piegarci il lavoro «This is Not an Apricot», opera esposta anche al Macba di Barcellona nella mostra «Territorios indefinidos. Perspectivas sobre el legado colonial»?
Nasce in Amazzonia, in un mercato di Manaus, dove ho visto tanti frutti che non conoscevo. Quando ho chiesto al venditore il loro nome, lui mi ha risposto che erano albicocche. In realtà, non lo erano ma dato che era stato proibito agli indigeni parlare la loro lingua, a causa dell’imperialismo linguistico occidentale, questi frutti non avevano più il loro nome originale. Per contrastare tale negazionismo ho dipinto i frutti, trascritto il loro nome scientifico ed esplicitato il fatto che non sono albicocche.
Alcuni anni fa ho partecipato a un workshop all’Accademia di belle arti di Tromso, in Norvegia in cui era presente Geir Tore Holm, architetto di origine Sami. Raccontava di come lo stato norvegese avesse impedito ai Sami di parlare la lingua natia, e del suo desiderio di reintrodurla. Fortunatamente Nils-Aslak Valkeapää, artista, poeta, scrittore e musicista Sami è riuscito a reintrodurre il Yoik, una canzone tradizionale Sami che era stata proibita dal governo norvegese, una piccola ma significativa forma di resistenza.
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