Il momento buio dei musei, con la ricetta di Kenneth Clark
Con il Covid, il modello è da ripensare Rilanciare l’idea, anglosassone, della gratuità della cultura, fra regole strette ma meditate: per esempio a Londra, durante la guerra, l’allora direttore della National Gallery...
Con il Covid, il modello è da ripensare Rilanciare l’idea, anglosassone, della gratuità della cultura, fra regole strette ma meditate: per esempio a Londra, durante la guerra, l’allora direttore della National Gallery...
Sir Kenneth Clark (poi Lord Clark) è stato uno studioso che, come pochi, seppe non solo parlare con intelligenza dell’arte ma anche occuparsi della sua salvaguardia. Le due cose non sempre vanno insieme. Durante la seconda guerra mondiale, piuttosto giovane, era già direttore della National Gallery di Londra e riuscì a conservare in buon ordine la raccolta, fra le migliori del mondo. Ebbe anche la capacità di sostenere l’interesse per lo studio della grande pittura occidentale in quegli anni bui mantenendo aperto in parte il museo e ricoverando in assoluta sicurezza nel contempo, in luoghi remoti, molte delle opere. Sir Kenneth fece qual che doveva fare: ospitò concerti, istituì l’abitudine che ancora oggi dura di scegliere un quadro da mettere in evidenza ogni mese. Aiutava così la cittadinanza a ravvivare la mente depressa e a pensare alla bellezza delle immagini, al suono della musica, nonostante sapessero che forse prima o poi le bombe avrebbero potuto danneggiare intere parti della città.
Come si sa i musei inglesi pubblici sono sempre stati gratuiti e nessuno ha mai pensato di far l’opposto almeno negli ultimi sessant’anni, quelli che corrispondono ai miei ricordi inglesi. Ci fu solo un momento di dubbio sotto Mrs Thatcher ma ricordo bene che personaggi rispettati come John Pope-Hennesy iniziarono una protesta garbata ma violenta nello stesso tempo, che la signora di ferro non riuscì a superare.
D’altra parte oggi si fa un gran parlare di musei gratis la domenica in Italia ma a me sembra di ricordare – non lo posso giurare – che molti anni fa lo fossero. Forse questo ricordo è sottoposto al fatto che allora ero giovane e studiavo all’università. Una cosa è certa, costavano, contrariamente ad oggi, pochissimo. Persino nei commercialissimi Stati Uniti i musei sono spesso aperti al pubblico senza costo alcuno, cosa che non sorprende nessuno – mentre ho sempre trovato un po’ scandaloso che in uno dei musei da me più amati, la Frick Collection di New York, si impedisca l’ingresso ai ragazzi di meno di dieci anni.
Una cosa è certa, non si dovrebbe essere costretti mai a pagare per vedere ciò che almeno in astratto ci appartiene. È pur vero che se i musei fossero aperti incondizionatamente i rischi di contagio sarebbero elevati. Dunque c’è bisogno di regole strette ma meditate. Anche perché le visite ai musei sono certamente meno pericolose di altre manifestazioni, organizzate o spontanee che siano. Una passeggiata il sabato pomeriggio nelle grandi vie commerciali mi appare più pericolosa dello stare ad ammirare il Paolo III coi nipoti, di Tiziano, in una delle spaziose sale del Museo di Capodimonte. Non si può vietare tutto – bisognerebbe educare prima.
Parlerò adesso di me. Mi sono avviato ad un lavoro difficile, preparare una ricerca sui mobili romani del primo Rinascimento, del Quattrocento cioè. Non ne so molto e ho pochi libri sull’argomento. Le biblioteche e gli archivi sono chiusi, per ora fino agli inizi di dicembre, e giustamente, ma spero che dopo si ritrovi il modo di consentire la consultazione di testi e di documenti, seppure ad un numero parco di persone. Non si potrà più, certo, avere folle oceaniche ma non è certo questo il caso di biblioteche o archivi.
D’altronde allontanarci dalla cultura è una soluzione impietosa.
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