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Il modello nero

Il modello neroMarie Guillemine Benoist «Portrait d’une femme noire» (1800)

Mostre «Le Modéle noir: De Géricault à Matisse» al Musée D'Orsay

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 18 maggio 2019

Il nero diventa un tema ricorrente nell’arte francese dall’epoca della rivoluzione quando viene abolita la schiavitù, ma il processo di acquisizione del nuovo immaginario continua lungo un percorso accidentato con editti e contro editti in date diverse, anche molto lontane tra di loro, in Francia e nelle colonie. I pittori sollecitati dalla novità e dal desiderio dell’esotico proprio del clima romantico, useranno come fonte di ispirazione il modello nero per la bellezza dei corpi muscolosi e dei visi dai grandi occhi espressivi, un’esaltazione che assomiglia a una nuova forma di paganesimo assecondata da pensatori e scrittori. Alexandre Dumas nel suo romanzo Georges del 1843 racconta i rischi di una cittadinanza recente, lui nipote di un mulatto, nato da un marchese francese e da una schiava di Haiti. Théophile Gautier scrive per il teatro La Nègresse et le Pacha per la señora Martinez, una Malibran nera, che canta accompagnandosi con la chitarra. La vita di Charles Baudelaire è sconvolta dalla passione per l’attrice mulatta Jeanne Duval che gli ispira i «tableaux parisiens» di Les Fleurs du Mal: «La bizzarra deità, bruna come le notti, dal profumo mescolato di muschio e di avana». Nel 1862 Éduard Manet la ritrae seduta in poltrona avvolta dall’abito che l’avvolge come una nuvola bianca e mette in risalto i lunghi capelli corvini e gli occhi nerissimi.

Il primo splendido esempio di ritratto di una femme noire è «Portrait de Madeleine» (1800) di Marie-Guillemine Benoist. Spirito libero che non dipinge solo fiori o scene di genere come le pittrici sue coetanee, allieva di Jacques-Louis David, sceglie di immortalare una nera dalla bellezza regale. È probabilmente una domestica venuta dalle colonie, ma ha la consapevolezza della sua dignità. Vista di tre quarti con il turbante bianco e il vestito drappeggiato sul grembo che le lascia scoperti il lungo collo, le spalle, il braccio destro tornito e il piccolo seno, si stacca dallo sfondo neutro guardando dritto negli occhi lo spettatore. È solo per caso che la modella sia nera perché la pittrice non ritrae una fantasia esotica, ma una donna dalla bellezza enigmatica.
Arte e storia si intrecciano nelle tele di Théodore Géricault, nato a Rouen mentre la nascente rivoluzione festeggia a Parigi la vittoria su Luigi XVI a cui viene imposta la Costituzione. Il giovane pittore interpreta e anticipa la forza del nuovo nel suo quadro più celebre «Le radeau de la Meduse» del 1818, dove mette alla testa dei sopravvissuti al naufragio un possente nero dal corpo muscoloso che agitando in alto un brandello di stoffa cerca di segnalare la situazione disperata della zattera a una nave di passaggio. Il modello è Joseph, un giovane haitiano che arriva in Francia verso il 1790 e trova lavoro come acrobata in un circo. Quando il pittore lo incontra ne fa il protagonista di alcuni suoi quadri. Nel viso scuro dai lineamenti marcati di «Portrait de Joseph», la bocca sormontata da un accenno di baffi, i corti capelli ricci, spiccano gli occhi di un marrone trasparente che tende al giallo il cui sguardo malinconico sembra guardare con nostalgia la patria lontana. In «Étude de torse de nègre Joseph pour Le radeau de la Méduse», l’artista studia la muscolatura impressionante dell’uomo quasi in un trattato anatomico.

La mostra «Le modèle noir de Géricault à Matisse» al Musée d’Orsay di Parigi fino al 21 luglio, organizzata in collaborazione con la Wallach Art dell’Université de Columbia, occupa la lunga sala centrale e le gallerie che ospitano dipinti, sculture, fotografie provenienti da tutto il mondo. Il percorso copre quasi due secoli e si articola in tre momenti. Il periodo dell’abolizione della schiavitù, il momento della nuova pittura e l’esplosione delle prime avanguardie. Ma chi sono questi grandi dimenticati della storia dell’umanità? Dallo stereotipo all’individuo, dall’ignoranza al riconoscimento, si cerca di tracciare il lungo processo che ha portato alla luce il non visto e non detto della storia dell’arte.
«Pourquoi naître esclave?», un gesso policromo di Jean-Baptiste Carpeaux , è un busto femminile di una donna nera legata con una corda che le passa sopra il seno nudo e le tiene bloccate le braccia. Il suo viso girato di profilo sembra guardare rassegnato e consapevole la sua triste condizione. La schiavitù, a cui si è ispirato il pittore, era ancora in vigore nelle colonie.
Quando l’«Olympia» di Edouard Manet viene presentata al Salon del 1865, le critiche si concentrano sul soggetto del quadro che viene giudicato volgare. Il contrasto tra il corpo nudo, bianchissimo, della cortigiana sdraiata sul divano e la figura della nera in piedi che le porge un mazzo di fiori non viene notato da nessuno. Ma la presenza della cameriera, che rimanda a un’immagine aristocratica e coloniale, può essere letto come la differenza sociale che esiste tra le due e rinforza il potere sovversivo del quadro. Nell «Étude d’après le modèle Scipion» di Paul Cézanne, in cui un nero con la schiena nuda seduto su uno sgabello appoggia la testa sul braccio sorretto da un masso bianco, non conta più la muscolatura meno evidente che nei quadri di Géricault, ma piuttosto l’atteggiamento di abbandono, di estrema stanchezza dell’uomo stremato dal duro lavoro. Sono passati quarant’anni tra un’opera e l’altra e forse solo ora si affaccia la consapevolezza di che cosa significhi veramente la schiavitù.

L’incontro con l’esotico importato dalle colonie dai missionari o dagli antropologi, e i musei che nascono intorno al 1870, diffondono la fantasia dell’altrove come ritorno alla natura e al primitivo. L’esempio più clamoroso è Paul Gauguin che nel 1891 lascia definitivamente l’Europa alla ricerca dell’Eden perduto. Ma l’ideale contagia anche chi non si è mai mosso dalla Francia come Henri Rousseau, il «Doganiere» che immagina terre vergini dove l’uomo vive allo stato di natura, popolate da neri che non assomigliano a nessun tipo etnico. In «La charmeuse de serpents» (1907), una figura femminile in piedi, nuda e dalla pelle scura, con i capelli che le arrivano fino alle ginocchia, affascina con il suono del flauto i serpenti che le si avvicinano, le salgono sul collo, sullo sfondo di un placido fiume verde, di alberi dalle grandi foglie, di un folto tappeto erboso su cui si posa un fenicottero rosa. I disegni di Pablo Picasso, che l’anno dopo presenta «Étude pour Nu debout», sono ispirati alle fattezze abbondanti delle donne africane.
Negli anni venti a Parigi sono di moda il jazz e gli artisti neri che si esibiscono sui palcoscenici e nei tabarin. Josephine Baker, a seno nudo, con un corto gonnellino, adorna di voluminose collane e con una coda di piume, è immortalata dal fotografo Walery. Nel 1930 un lungo viaggio porta Henri Matisse a Tahiti passando per gli Stati Uniti. È affascinato dai grattacieli di New York e soprattutto dal jazz di Harlem dove si esibiscono musicisti come Louis Amstrong e Billie Holiday. Al ritorno in Francia, imbevuto dalla musica nera e dai colori dei tropici, nelle sue ultime opere prende a modello donne meticce. La caraibica Katherine Dunham, fondatrice dei Ballets Caraïbes, l’haitiana Carmen Lahens che posa per i disegni dei «Fleurs du mal». Altrettante figure che assomigliano alla linea melodica improvvisata del jazz, come «Dame à la robe blanche» del 1946. Seduta su un divano viola a macchie nere, l’abito bianco a righe, le larghe spalle scoperte, gioca con le perle della lunga collana bianca e blu come se fossero note.

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