Il modello Corman, il re del “B Movie”
Intervista a Roger Corman La rivista "Fangoria" gli ha appena dedicato la copertina, ha quattro produzioni in corso, Joe Dante girerà un film sulla lavorazione di The Trip"
Intervista a Roger Corman La rivista "Fangoria" gli ha appena dedicato la copertina, ha quattro produzioni in corso, Joe Dante girerà un film sulla lavorazione di The Trip"
Le voci che da tempo corrono su una biopic ispirata alla vita di Roger Coman firmata da Joe Dante si sono di recente fatte più insisitenti. Sui social degli appassionati rimbalzano le presunte notizie sul progetto di cui per ora si conosce il titolo “The Man with the Kaleidoscope Eyes”) e il soggetto: la storia della produzione di “The Trip” il film diretto da Corman nel 1967 su sceneggiatura di Jack Nicholson in cui Peter Fonda, assistito da Bruce Dern e Dennis Hopper si fa di acido sulle colline di Hollywood (due anni dopo Hopper e Fonda avrebbero scritto e diretto il loro, più celebre, «acid trip» nel cimitero di New Orleans per “Easy Rider”).
“Trip” tradotto “Serpente di Fuoco” dal solito geniale titolatore italiano, era una specie di manuale d’uso per l’Lsd, di cui durante la produzione fecero famosamente uso interpreti e regista, e allo stesso tempo una rappresentazione kitsch dello sballo con allucinazioni grindhouse e sgargianti effetti ottici tipici dell’epoca. Un film sperimentale anche se pur sempre un exploitation-movie sulla controcultura, una vena quest’ultima minata regolarmente da Corman che dieci anni prima aveva ambientato il suo horror “Bucket of Blood”sullo sfondo della scena Beat e negli anni ’50 realizzato una sfilza di storie su ragazze teenager ribelli. Coi suoi montaggi psichedelici sulla musica degli Electric Flag di Mike Bloomield e Buddy Miles, “Trip”era tipico Corman anche per il cast di giovani promesse lanciato e verso carriere divenute altrettanto mitiche. Il decano della «serie B» avrebbe negli anni fatto lo stesso per molti altri, soprattutto giovani registi, autori del calibro di Monte Hellman, Francis Ford Coppola, John Landis, Ron Howard e James Cameron e proprio Joe Dante che nei suoi modesti New World Studios di Venice, all’angolo di Rose e Pacific, ebbe, come gli altri, il primo assaggio di regia, e della leggendaria parsimonia del loro produttore. L’accademia trasversale di Corman che ha inciso un solco nella storia del cinema indie americano. Corman è stato uno dei pochi che è riuscito ad operare come guastatore davvero indipendente all’ombra della macchina hollywoodiana, assieme forse a John Cassavetes. Ma Corman ha operato dalla parte opposta dell’avanguardia sperimentale e «scarna» di Cassavetes. Pur essendo stato fra i primi a far conoscere agli Americani, come distributore, Truffaut, Bergman, Fellini, Kurosawa, Schlöndorff e Resnais, la cifra e passione di questo ingegnere laureato a Stanford e Oxford, è sempre rimasto il genere «B», col quale è sopravvissuto a molti produttori ben più govani di lui. Un sedicente artigiano del cinema con all’attivo oltre 300 film divenne celebre per la serie di adattamenti di racconti di Edgar Allan Poe sfornando in seguito un numero impressionante di produzioni a basso costo per la American International Pictures.
Oggi è quasi certamente l’ottantasettenne più distinto di Hollywood, ma non ha certo smesso di lavorare; «ho quattro film in postproduzione» ci dice quando lo incontriamo nella hall del Beverly Hilton dove saettano diverse occhiate di riconoscimento al suo indirizzo. «Anzi ero al montaggio stamattina. Ce n’avrò fino alla fine dell’anno. Dopo sto cercando un altro racconto di Poe da adattare. Ne ho fatti sei e avevo detto che non ne avrei fatti più, ma alla fine mi hanno convinto».
Allora, cominciamo da questo «Kaleidoscope Eyes» ne sa qualcosa?
Si certo, mia moglie ed io abbiamo cenato con Joe (Dante) ed Elzabeth proprio la scorsa settimana. La scenggiatura è pronta già da un paio di anni e il titolo credo sia una citazione del mio “Man with X-Ray Eyes”. È la storia di come ho girato “The Trip” negli anni 60. Era un film sull’Lsd che fece molto scalpore ma fu anche l’unico film americano invitato a Cannes quell’anno. Durante la preparazione presi anch’io dell’acido e il film di Joe ripercorre quelle vicende credo in chiave comedy. Inizialmente so che aveva offerto a Colin Firth di fare la mia parte, poi dopo che ha vinto l’Oscar è diventato improponibile. Gira anche voce sulla partecipazione di Quentin Tarantino che e’ un amico e mi sembrerebbe una buona scelta. Io dovrei fare una cameo nei panni dell’executive dello studio che all’epoca non voleva che facessi il film.
Quella è stata solo una delle sue collaborazoni con Jack Nicholson. Come vi siete consosciuti?
Io mi sono laureato da ingegnere e quando ho cominciato ad interessarmi al cinema ho imparato abbastanza in fretta gli aspetti tecnici, la cinepresa, il montaggio ecc. Ma mi sembrava di avere ancora molto da scoprire sulla recitazione e sugli attori così mi sono iscritto ad uno stage di recitazione tenuto da Jeff Corey e Jack Nicholson era uno dei ragazzi nel corso. Si vedeva subito che era il migliore, così l’ho assunto. Aveva sì e no vent’anni e fece 4 o 5 film con me prima di venire scoperto. Io l’avevo capito subito che sarebbe andato lontano.
Non è certo l’unico grande nome ad avere cominciato con lei.
Con molti siamo rimasti amici, alcuni in particolare. Jack è stato da noi un paio di mesi fa e poco prima Francis Ford Coppola ci ha invitati a casa sua a Napa Valley dove ha la vigna. Fa un ottimo vino e ha invitato me e Julie su da lui per il mio compleanno. Quando sceglievo i mei collaboratori non avevo modo di sapere che molti avrebbero finito per vincere Oscar, ma che avevano talento, questo sì lo sapevo. James Cameron cominciò facendo sci fi con me e ha finito per fare “Avatar”, il film di maggior successo della storia. Se li avessi io i $150 milioni di quel budget farei un grande film da $75 milioni e poi ne farei altri 10 o 20 venti col budget che dico io (ride).
Uno di questi era Ron Howard che in proprio questi giorni ha portato in sala il suo «Rush»…
Anche lui l’ho ingaggiato inizialmente come attore perché era molto bravo. Tutti lo ricordano in Happy Days ma in realtà è stato sottovalutato anche come interprete drammatico. Per coincidenza per me fu protagonista proprio di un film di macchine che si chiamava “Eat My Dust”. Ricordo che lui su quel film aveva una percentuale degli incassi e siccome funzionò molto bene lo chiamai e gli dissi ‘Ron, stavolta ti fai un bel gruzzolo’. E lui mi rispose ‘lo so e so anche che quando un film va così bene si fa subito una sequel e la star prende sempre un aumento. Io invece te la faccio senza aumento e ti faccio anche un altro lavoro’. ‘Che lavoro?’, gli chiesi. ‘La regia’ (ride). E fui più che contento di fargliela fare perche’ sapevo che aveva del talento.
Attorno ai suoi film sono nate leggende urbane. Ad esempio quella su «Little Shop of Horrors» girato in due o tre giorni. Fu così?
In realtà furono due giorni e una notte. Il budget era di $30,000 e non mi potevo permettere di assumere gli attpri per più di 5 giorni. Cosi provammo lunedì, martedì e mercoledì e girammo giovedì e venerdì più una manciata di scene in notturna. Andò bene e credo che il film ebbe successo per il tono leggero che aveva, nessuno lo prese troppo sul serio, ci divertimmo. Ad un certo punto ricordo un elettricista fece una battuta sul set e faceva ridere, così l’ho aggiunta al copione. Tutti parteciparono anche la troupe.
Cosa pensa dei film che si fanno oggi?
Alcuni mi piacciono molto, anche se forse alcuni di loro prestano così tanta attenzione agli effetti speciali che a volte si di menticano della storia. Gli effetti di cui oggi disponiamo sono i migliori di sempre, magari avessi avuto io accesso a computer così nella mia carriera. Ma se lo sviluppo dei personaggi viene trascurato allora i film ne risentono. Per questo torno a James Cameron, uno che fa i migliori effetti al mondo ma che cura ugualmente gli attori e la storia.
I suoi film dove li colloca?
Sono d’accorodo con quello che mi disse una volta Vincent Price, con cui facemmo la maggior parte dei film di Poe. Una volta a pranzo gli feci notare che quei film stavano ricevendo anche delle ottime recensioni. E Vincent mi disse bene, ma di stare attenti a non farci illusioni. Disse che dopotutto noi eravamo artigiani, come un falegname che fa un buon mobile. E se il mestiere a volte si eleva ad un piano superiore tanto meglio, ma è meglio non pensare di essere artisti. Ho sempre ricordato quelle parole, soprattutto in presenza delle pretese di certi colleghi. Fu bello ottenere il riconoscimento dei critici francesi della nouvelle vague ad esempio ma io credo che per la maggior parte siamo soprattutto degli artigiani. La vera gioia sta nel realizzare un film.
Ha cercato il successo?
Certo, si spera sempre di far bene. La maggior parte dei miai film sono stati commerciali ma hanno forse in comune una vena liberale e ottimista sul potenziale dei personaggi di migliorare il mondo. Ad esempio il film che feci nel 1960 The Intruder – L’Odio Esplode a Dallas), era sull’odio e l’intergazione razziale nel sud degli Stati Uniti con un giovane attore venuto da Broadway, Wiliam Shatner, nei panni di un provocatore. Andò a Venezia, anche se non vinse, poi a un paio altri festival. Il New York Times scrisse che faceva onore a tutta l’industria cinematografica. E fu anche il primo film su cui persi dei soldi (ride, ndr). Dopodiché mi sono dato una calmata sui grandi temi.
Ha dedicato diversi film alla cultura e la ribellione sociale giovanile. Come mai?
Quando ho comiciato negli anni 50 le norme sociali erano asfissianti, trovo solo positiva la liberalizzazione che nei decenni successivi ci ha liberato da quel livello di repressione. Per quanto riguarda il cinema c’è stata una grande liberalizzazione rispetto al sesso mentre mi sembra che semmai potremmo essere più severi rispetto alla violenza. Non che debba sparire dai film ma mi sembra che alcuni divieti per sesso dovrebbero invece venire applicati alla violenza.
C’è spazio oggi per un «modello Corman»?
Perché no? Anzi è più facile con la riduzione dei costi di video e digitale fare film a basso costo. Noi avevamo delle gigantesche e pesantissime cineprese Mitchell mentre oggi te la cavi oon una macchina a mano. Il materiale è mobile, ideale per produzioni low budget. Quella che invece è diventata più difficile è la distrubuzione. Sin dall’inizio i miei film avevano tutti una distribuzione in sala garantita, oggi questo è impensabile, così aumenta l’importanza di cavo, Dvd e mercati esteri, ma anche lì c’è crisi. Io però sono ottimista sul ruolo che i questo senso potrà avere internet.
Allo stesso tempo gli studios fanno praticamente solo «blockbuster»..
È vero e credo che sia un sbaglio perché è nei film dai budget più modesti che si può sperimentare, si possono provare cose nuove, prendere dei rischi. Se stai cercando di ammortizzare $100 milioni non hai voglia di rischiare, di essere originale. E quest’estate abbiamo visto una conseguenza di questa omologazione. Anche se gli studios hanno guadagnato ci sono stati diversi falllimenti di film costati $100, $150, $200 milioni.
Credo che uno dei suoi film più costosi sia stato «Secret Invasion», un film di guerra costato l’esorbitante cifra di $600.000 nel 1964?
Me lo ricordo bene, avevo anche un gran cast con una grande star, Stewart Granger. Ricordo che stavamo girando un scena notturna a largo di Dubrovnik. Avevo una cinepresa su una barca, luci, fumogeni, tutto sull’acqua, perfino un incrociatore della marina Yugoslava. Stavamo girando nella nebbia ed era molto difficile con la corrente che trascinava e allontanava le imbarcazini e la nebbia che non stava mai al posto giusto. E nel bel mezzo di tutto viene da me Granger e mi fa ‘in questa scena le battute di Ed (Burns) le voglio dire io’. ‘Come tu? Nel copione sono le sue battute’. ‘E io sono la star e le voglio dire io!’ E così di botto si blocca tutto. Il tempo passava e non sapevo che pesci prendere. Mi vide Raf Vallone, venne vicino a me e mi chiese perché sorridi? ‘Perché sono in un mare di guai e non mi resta che sorridere’. Alla fine aggiunsi delle battute ai dialoghi e dissi a Granger, ‘non posso farti dire le sue ma te ne ho aggiunte altre’. Girammo la scena e andò tutto bene. Naturalmente dopo, al montaggio, le ho tutte tagliate. (Ride)
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