Il modello Cina, in un mondo grande e ambivalente
TRA ORIENTE E OCCIDENTE Attraverso saggi, di taglio sociologico e politologico, un percorso di letture su meritocrazia e leadership. Daniel A. Bell, canadese esperto di politica e filosofia asiatica, si difende dalle accuse di «panda huggers». Yan Xuetong prosegue il ragionamento del collega partendo dall’analisi delle relazioni internazionali
TRA ORIENTE E OCCIDENTE Attraverso saggi, di taglio sociologico e politologico, un percorso di letture su meritocrazia e leadership. Daniel A. Bell, canadese esperto di politica e filosofia asiatica, si difende dalle accuse di «panda huggers». Yan Xuetong prosegue il ragionamento del collega partendo dall’analisi delle relazioni internazionali
Nella prefazione alla nuova edizione del suo libro Modello Cina, meritocrazia politica e limiti della democrazia (Luiss, 2019, pp. 350, euro 25, prefazione di Sebastiano Maffettone, traduzione di Gabriella Tonoli) il sociologo canadese ed esperto di politica e filosofia asiatica Daniel A. Bell, espone e risponde ad alcune delle critiche che vennero riservate al suo volume al momento dell’uscita – in lingua inglese – avvenuta nel 2015. In particolare, il testo venne etichettato come un «attacco alla democrazia», finendo per inserire il suo autore all’interno dei cosiddetti «panda huggers», espressione per indicare studiosi eccessivamente indulgenti, quando non «sostenitori», del sistema politico cinese.
Si tratta di una critica che fa il pari con il suo contrario: quando si evidenziano storture all’interno della governance cinese, talvolta, si viene inseriti nell’estremo opposto, ovvero tra i cosiddetti «China basher», gli «odiatori» del sistema politico cinese. Queste due «accuse» il più delle volte sono esageratamente tranchant e semplicistiche, ma per rimanere al caso di Daniel A. Bell sono anzitutto ingenerose. Sostenere che «il modello cinese» possa fornire un’alternativa ai modelli politici occidentali liberali, o supposti tali, e che la sua storia e la sua ricerca della meritocrazia – ampiamente migliorabile – possa essere utile anche ai sistemi occidentali (questo è il cuore del libro, come spiega nell’ottima prefazione Sebastiano Maffettone) non significa essere anti-democratici. Significa semplicemente inserire la propria riflessione all’interno della storia del paese di cui ci si occupa.
COME SCRIVE BELL, «la teoria politica e le istituzioni cinesi devono essere prese sul serio e per giudicare il progresso e il regresso politico in Cina si deve partire principalmente dalla cultura politica e dalla storia cinese», considerando che dovrebbe «sembrare strano sostenere di riformare il sistema politico cinese secondo i valori dei padri fondatori dell’America o dei liberali kantiani».
In Cina la concezione dei cicli politici si basa sull’opposizione tra ordine e caos. Solo con l’ordine nasce la virtù. Conseguenza della tradizione cinese è un attuale sistema politico che pesca dal passato la volontà di svilupparne uno efficiente grazie a una scelta basata sul merito dei suoi funzionari. E che Bell non considera affatto superiore alla democrazia; si limita a sostenere il diritto dei cinesi di considerare il proprio sistema come diverso e non per questo inferiore a quelli occidentali.
ANALOGO DISCORSO può essere effettuato sulla questione dei diritti umani, concetto occidentale, che in Cina si trasforma nella volontà del governo di aumentare il benessere e la felicità della popolazione (di recente Xi Jinping in suo discorso ha sottolineato come l’aspetto principale della sua «Nuova era» sia proprio quello di sforzarsi per garantire il benessere della popolazione, invitando quadri e funzionari di partito a cercare «di capire il più possibile quali sono le esigenze dei cittadini cinesi»). Insomma, sarebbe il momento di finirla di considerare aprioristicamente dei sistemi «buoni» e dei sistemi «cattivi».
Nella sua prefazione alla nuova edizione del volume Daniel A. Bell scrive: «Ma vi è qualcosa di problematico nel sostenere che la democrazia è adatta ad alcuni paesi ma non alla Cina? Non dovremmo stare attenti all’orientalismo che sembra riecheggiare le tesi di John Stuart Mill contro la democrazia in paesi «barbari» come l’India? Se è così accuse simili potrebbero essere sollevate contro intellettuali cinesi che spesso sostengono che la «qualità» del popolo cinese è troppo bassa per la democrazia elettorale». Il cuore della meritocrazia cinese è riscontrato da Daniel A. Bell nella storia e dinamica degli esami imperiali, metodologia che dagli anni ’90 è stata ripresa per selezionare anche i funzionari politici (ed elemento suscettibile di miglioramento secondo lo stesso Bell): «l’idea di ricorrere a esami per individuare il talento politico sembra strano agli occidentali ma ha radici profonde nella cultura politica cinese».
IL PRINCIPIO di meritocrazia politica, la designazione di funzionari «secondo il merito piuttosto che per il loro pedigree», scrive Bell, «era condiviso da tutte le principali correnti intellettuali del periodo pre-imperiale». Con l’istituzionalizzazione del sistema di esami nella Cina imperiale, il dibattito si è sostanzialmente chiuso». A istituirli fu l’imperatore Wu della dinastia degli Han (141 a.C.-87 a.C.) già protagonista dell’invio dell’emissario che avrebbe poi aperto la Cina al commercio su quella che poi sarebbe stata chiamata la «via della seta». Con la dinastia Tang furono una condizione necessaria per accedere agli incarichi di funzionari, per maturare poi definitivamente nel periodo Ming (passando anche per una fase nella quale erano una sorta di soluzione allo strapotere aristocratico: in quel caso la «meritocrazia» si prefiggeva di sconfiggere privilegi di natura ereditaria).
Lee Kuan Yew, fondatore e ideatore della Singapore come la conosciamo oggi, non senza repressione e pugno di ferro contro gli oppositori, era un grande conoscitore della Cina. E a proposito delle tradizioni ricordava in continuazione la contrapposizione tra ordine e caos, citando il famoso detto, «le montagne sono alte, l’imperatore è lontano»: solo la centralità e la sua garanzia dovuta alla selezione dei funzionari può assicurare ai cinesi una sorta di continuità storica con un metodo di reclutamento che, modificatosi nel corso dei secoli, è per lo più ancora lo stesso.
DANIEL A. BELL ha scelto inoltre alcune linee guida per esaminare il cosiddetto «modello cinese», inserendosi all’interno di un dibattito nazionale. Sono stati molti gli autori cinesi che negli ultimi anni hanno indagato le caratteristiche del sistema cinese, cercando di trovare confronti e agganci con i modelli occidentali: alcuni di sicuro lo fanno partendo da posizioni ultra nazionaliste, come nel caso di Zhang Weiwei, altri come ad esempio Yan Xuetong, tentano invece di analizzare il modello cinese alla luce delle relazioni internazionali. Per questo l’ultima opera di Yan Xuetong, Leadership and the rise of great powers (Princeton University Press, pp. 260, 30 dollari) pubblicato di recente nella collana curata proprio da Daniel A. Bell, si può considerare attiguo e per certi versi una continuazione del ragionamento offerto da Bell nel suo volume.
Il primo analizza alcune caratteristiche fondanti del «modello Cina»; il secondo si chiede se questo modello, partendo dalla sua teoria delle relazioni internazionali che affida suprema importanza alla categoria del «politico», possa contribuire a fare della Cina il paese leader pur in un mondo che è tornato a essere bipolare. Xuetong analizza in particolare il periodo pre Qin (quindi dal 700 a.c. Circa fino al 200 circa), quando ancora l’aspirazione imperiale della Cina era falcidiata da scontri durante i quali si oscillava tra l’ordine e il caos. In particolare Yan si concentra sul periodo delle Primavere e degli autunni e sul periodo degli Stati Combattenti analizzando le dinamiche interstatali e scorgendo all’interno di queste traiettorie importanti lezioni di relazioni internazionali ancora valide, a suo dire, oggi. All’interno di quei periodo Yan rileva la scansione dell’approccio internazionale, da «umano» a «egemone», evidenziando una lezione che indubbiamente vale ancora oggi: «quando il sistema tributario è consolidato, le relazioni tra gli Stati sono in ordine; altrimenti sono caotiche».
IN CINA, scrive Bell, «il principale ideale politico – condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere – è quello che io definisco meritocrazia democratica verticale, intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti». Daniel A. Bell nel libro si pone anche alcune problematiche relative a una corretta, o meno, meritocrazia, a come la Cina dovrebbe «aprire» a sperimentazioni di natura democratica ai livelli più bassi per migliorare le caratteristiche della propria «meritocrazia». A questo proposito bisogna ricordare che quest’ultimo concetto è spesso un tentativo di mascherare blocchi sociali, attraverso l’attribuzioni di particolari doti.
Se non bastasse la letteratura al riguardo, sarebbe sufficiente guardare la prima stagione della serie brasiliana dal titolo 3% in cui il mondo è diviso da un tre percento che vive in un paradiso terrestre (nell’Offshore) mentre il restante della popolazione sta in condizioni di indigenza totale (nell’Entroterra). Ma ogni anno i ventenni dei disperati possono partecipare a un grande esame (seppure più cruento di quelli cinesi) per «meritarsi» di stare tra il tre percento. E una volta nel paradiso terrestre i più «meritevoli» dovranno sterilizzarsi: la discendenza, sostengono gli abitanti dell’Offshore, è il «supremo simbolo della diseguaglianza».
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