Si racconta che quando il giovane Allen Ginsberg visitò Oxford si fece indicare la stanza dell’University College che era stata quella dello studente Shelley (espulso dopo un anno per aver firmato un libretto su La necessità dell’ateismo), vi irruppe con i suoi sodali e con grande sconcerto degli allora occupanti si mise a baciare pavimento e pareti salmodiando. Non so se baciò anche la bella statua, piuttosto androgina, di Shelley morto per acqua esposta nel Memorial dello stesso College (che così in ritardo riparò alla cacciata dello studente più illustre). Perché questa passione shelleyana dei Beat? Anche Gregory Corso d’ogni tanto sfoderava arcaici metri shelleyani, schizzò un bel ritrattino del suo idolo, e, mattacchione, chiese che le sue ceneri fossero deposte nei pressi di quelle di Shelley nel Cimitero degli Inglesi sotto la piramide di Caio Cestio. Cosa che regolarmente avvenne.

Così i poeti utopisti e un po’ esibizionisti dell’America della Guerra Fredda rileggevano la Poesia grandiosa e tenera dei Romantici, ignorando la prescrizione (con molti distinguo) dei padri Pound e Eliot, e magari rifacendosi a un padre più ribelle nato tre anni prima della morte di Shelley, Whitman, che come Shelley dialoga con mare, vento, uccelli, uomini, anche se da bravo americano elimina ogni riferimento classico, “quei conti immensamente strapagati di Troia e l’ira di Achille, e i vagabondaggi di Enea e Ulisse …”. Basta, basta!

Invece con Shelley, figlio della Reggenza e dello stile Impero, il mondo degli antichi e i loro miti sono dappertutto. Certo Ginsberg sapeva a memoria qualcuna delle 55 strofe di Adonais, il poema grandioso in morte dello sfortunato coetaneo Keats, che (come ricordano i curatori del magnifico Meridiano Shelley) ha molto di testamentario e autobiografico: “L’Uno rimane, i molti mutano e passano; / la luce de Cielo splende sempre, volano via le ombre della Terra; / la vita, come una cupola di vetro variopinto, / macula il bianco fulgore dell’eternità, / finché la Morte non la infrange…”. E poi il finale che ricorda Ulisse e prefigura quanto avverrà l’8 luglio 1822 al largo di Viareggio: “La navicella del mio spirito è spinta / lontano dalla costa, lontano dalla folla tremebonda / che mai spiegò le vele alla tempesta…”. Il poeta eroe, visionario, che però ha la forza di opporsi ai potenti sia direttamente (i versi politici) sia con i grandi impervi affreschi mitici (il Prometeo liberato, che occupa 200 delle oltre 1800 pagine del Meridiano). E anche in Italia Shelley ha sempre fatto sognare, da D’Annunzio e Carducci, a Sanesi, Conte, Mussapi, poeti che hanno pescato nel vitalismo romantico e sperato di comunicarlo ai lettori smaliziati dell’ultimo cinquantennio. Con quanto successo non saprei dire, a parte il pregio delle traduzioni stesse, il loro dialogo con l’italiano contemporaneo.

La poesia lirica è difficile da trasmettere: “Mi sveglio, ti ho sognato / nel primo sonno della notte / i venti spiravano sommessi, / le stelle bruciavano splendenti”. Chissà se qualcuno sarà tentato di leggere questi versi a una persona cara. Forse sarà stimolato a mandare a mente l’originale: “I arise from dreams of thee / In the first sleep of night / The winds are breathing low / And the stars are burning bright”. E’ una canzone, dichiaratamente, convenzionale e struggente. Esiste infatti uno Shelley tenero e domestico accanto a quello infervorato, ed esiste anche uno Shelley giocoso, ironico, un po’ bamboleggiante, come nei lunghi deliziosi poemetti La maga di Atlante e La sensitiva. E nella denuncia del maestro Wordsworth per il suo sordido (per Shelley) realismo e soprattutto l’abiura conservatrice, Peter Bell Terzo. Tutte scoperte che il lettore curioso e coraggioso potrà fare addentrandosi nei labirinti di questo Meridiano, uno strumento come pochi altri per conoscere un uomo e un mondo.

Shelley non aveva ancora compiuto trent’anni quando perì. Nel 1992, bicentenario della nascita, un gruppo di poeti inglesi fu accolto da Attilio Bertolucci a Villa Magni presso Lerici, l’ultima dimora terrena di Shelley. Poi un battello li condusse nel Golfo e una corona fu gettata nelle acque prospicienti… I presenti sapevano tutti che in realtà il naufragio del “Don Juan” (o “Ariel” come Shelley avrebbe voluto battezzarlo) avvenne al largo di Viareggio, ma il mito secondo cui Shelley sarebbe annegato nel Golfo dei Poeti è così duro a morire nei paesi di lingua inglese che non solo Virginia Woolf in visita a Lerici invidiava “il più bel letto di morte che io abbia mai visto” (ne troverà infatti uno assai meno bello), ma se andate su Wikipedia inglese leggerete che Shelley è morto nel “Gulf of La Spezia, Kingdom of Sardinia (now Italy)”. Comunque chi come me nel 1992 partecipò a quel tributo per il bicentenario della nascita, e magari ci scrisse su un articolo, fra soli quattro anni (salvo imprevisti!) potrà meditare il bicentenario della morte. Tanto più intensi di quelli di un comune mortale furono i tre decenni in cui il geniale ragazzo Shelley ha potuto fare tutte le cose meravigliose e folli che ha fatto.

Ecco come apparve per la prima volta al futuro amico Trelawny, lo stesso che si occuperà della sua cremazione a Viareggio: “Entrando con rapida leggerezza, arrossendo come una fanciulla, un ragazzo alto e magro mi tese entrambe le mani, e per quanto a stento potessi credere guardando la faccia avvampante, femminea e schietta che costui fosse il Poeta, gli resi la calda stretta… Ero muto dallo stupore: era possibile che questo sbarbatello dall’aria mite fosse il vero e proprio mostro in guerra con tutto il mondo, scomunicato dai Padri della Chiesa, privato dei diritti civili [gli erano stati sottratti i figli avuti dalla prima moglie]…, denunciato come fondatore della Scuola Satanica?”.

E qui il lettore potrà gettarsi avidamente sulla biografia così ben ricostruita in cinquanta fitte pagine del Meridiano. Sotto i suoi occhi sfileranno Mary Shelley, la sua mirabile madre Mary Wollstonecraft, l’avido padre filosofo anarchico, il serraglio di Byron, grande amico ma tanto meno amabile dell’egualmente aristocratico Shelley. Così istruito, il fortunato lettore potrà regalarsi una gita a San Terenzo, a Villa Magni, dove la bella epigrafe dettata dal poeta-barbone Ceccardo non manca di fare il suo effetto: “Da questo portico in cui si abbatteva / l’antica ombra di un leccio / il luglio del MDCCCXXII / Mary Godwin e Jane Williams attesero con lagrimante ansia / PERCY BYSSHE SHELLEY / che da Livorno su fragil legno veleggiando / era approdato per improvvisa fortuna / ai silenzi delle isole elisee. / O benedette spiagge / ove l’amore, la libertà, i sogni / non hanno catene”.

D’Annunzio, certo, ma con un afflato autentico per quelle benedette libere spiagge. Lauro De Bosis, figlio di uno dei maggiori interpreti italiani di Shelley, fu animato da questi ideali generosi quando nel 1931 lanciò su Roma i volantini che invitavano gli italiani a ribellarsi alla dittatura, per poi perire anche lui col suo aeroplanino nel Tirreno: “La navicella del mio spirito è spinta / lontano dalla costa… Sono portato oscuramente, spaventosamente, lontano: / mentre ardendo attraverso il più intimo velo del Cielo, / l’anima di Adonais, come una stella, / splende dalla dimora dove abitano gli eterni”. Commuoviamoci con l’inglese, le stesse intatte sillabe che il poeta vergò: “The soul of Adonais, like a star, / Beacons from the abode where the Eternal are”.