Il mistero dell’impiccato nei boschi di una montagna non da cartolina
La vita in montagna sa essere rude e molto dura, niente a che vedere con la retorica dei «borghi», idillio per chi desideri fuggire dall’inferno metropolitano. Le comunità che abitano isolate e in alto non (necessariamente) sono aperte e pronte ad accogliere nuovi abitanti, nuove idee o pensieri non allineati
LA MONTAGNA AFFASCINA senz’altro, ma non va per questo mitizzata: il ritorno alle aree interne, l’idea di poter «riabitare l’Italia», è un fenomeno che vale la pena comprendere, analizzandone anche le difficoltà.
QUESTO PROCESSO di riflessione potrebbe trarre vantaggio dalla lettura di un romanzo, l’ultimo dello scrittore veneto Matteo Righetto. Si chiama La stanza delle mele ed è uscito qualche mese fa nella collana Narratori di Feltrinelli. Anche se racconta la vita all’interno di una piccolissima comunità ladina nei primi anni Cinquanta (Tre case, tre fienili, tre famiglie), determinate dinamiche sociali ricostruite con estrema precisione dall’autore, profondo conoscitore del contesto alpino, si ritrovano anche oggi nei racconti di tanti neo-rurali.
Il protagonista della storia di Righetto si chiama Giacomo Nef ed è un ragazzino di undici anni che cresce nella casa dei nonni paterni e durante l’estate deve occuparsi insieme ai fratelli maggiori e sotto lo sguardo sempre severo del nonno di semine, animali e di tutto ciò che c’è da fare per prepararsi all’inverno, come le «provviste» del legname.
I NEF VIVONO NEL BORGO di Daghè, sulle pendici del Col di Lana, nelle Dolomiti bellunesi. A poca distanza dalla casa, in una località conosciuta come Bosch Negher, Giacomo – mandato dal nonno sotto un temporale a recuperare una roncola dimenticata al mattino – scopre il cadavere di un uomo impiccato. È attorno a questa vicenda che si dipana un racconto che con un colpo di scena catapulta il lettore nel presente, scoprendo – siamo negli anni Novanta – un Giacomo adulto, capace di mettere a frutto un talento artistico coltivato in gran segreto da bambino nella stanza delle mele, quello di scultore capace di modellare il legno.
DISCENDE DA QUESTO, al netto della scrittura elegante di Righetto e dall’intreccio potente della narrazione, un secondo motivo di profonda fascinazione per un lettore dell’ExtraTerrestre: Matteo Righetto, che nel 2020 aveva pubblicato I prati dopo di noi, anticipando nel suo racconto gli effetti estremi dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale sulla vita degli esseri umani sulla Terra e sulle Alpi in particolare (per gli affezionati del nostro inserto, lo abbiamo recensito sull’ET del 25 marzo 2021), nel suo nuovo libro racconta di boschi con la passione e la competenza di un grande naturalista.
IL NARRATORE ACCOMPAGNA Giacomo nel suo girovagare tra foreste originarie, riconoscendo le essenze degli alberi ad alto fusto che chi ha camminato lungo i sentieri delle Dolomiti chiudendo gli occhi sa ritrovare. E chi non lo ha mai fatto o manca da troppi anni da Colle di Santa Lucia e dalla valle di Fodom per ricordare, li scoprirà seguendo i passi di Righetto, che cammina quei sentieri in ogni stagione, perché lassù a casa.
E ABITANDO LA MONTAGNA sa che l’immobilità dei luoghi è solo apparente, che le piccole comunità sanno nascondere segreti e dolori profondi e faticosi da elaborare. Ecco perché in questo libro lo scioglimento del mistero dell’impiccato al Bosch Negher è come uno schiaffo, ben assestato, all’idea che esista sempre una verità unica, capace di definire – per sempre e in modo definitivo – chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
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