Visioni

Il mistero della canzone come in un juke box d’altri tempi

Il mistero della canzone come in un juke box d’altri tempiBob Dylan durante un concerto in Spagna nel 2012 – foto Ansa

Bob Dylan 66 standard scandagliati e analizzati in un libro dall'artista premio Nobel per la letteratura

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 16 dicembre 2022

Se non fosse stato occupato a scrivere e cantare le canzoni più belle degli ultimi sessant’anni Bob Dylan avrebbe scritto di canzoni e i suoi testi farebbero scuola. Conoscenza enciclopedia, capacità folgorante di individuare i nessi che sfuggono alla prima e anche alla seconda vista, talento sorprendente nel cogliere il senso profondo dell’arte, in tutti i sensi popolare, di cui qui si parla: non la musica in generale ma la forma specifica che assume quando diventa canzone. Ma da Dylan non si può pretendere che affronti il mistero della canzone, la sua eterna magia, come un cattedratico pur essendo, a modo molto suo, anch’egli uno studioso.
Filosofia della canzone moderna (Mondadori 2022, pp. 334, euro 39, traduzione di Alessandro Carrera che è uno dei migliori e più acuti «dylanologi» non d’Italia ma del mondo) è un libro subdolo, trae in inganno il lettore, lo sfida come l’autore è abituato da sempre a fare con chi ascolta la sua musica. Sono elencate, commentate, discusse, contestualizzate, scandagliate 66 canzoni, nella grande maggioranza americane e qualche volta inglesi, tutte tranne due, Doesn’t Hurt Anymore di John Trudell e Dirty Life and Times dall’ultimo capolavoro di un moribondo Warren Zevon, del XX secolo. L’unica canzone non in inglese è Volare di Mimmo Modugno e basterebbe quel capitolo, travolgente e sublime come il pezzo di cui parla, per rendere il libro imperdibile.
Con la carta patinata, l’apparato iconografico chiassoso come un juke box d’altri tempi e l’apparente frammentarietà dei testi, il terzo libro di Dylan dopo Tarantola e Chronicles somiglia a uno di quei volumi strenna lussuosi che si mettono da parte per sfogliarli distrattamente quando capita o per leggersi un capitoletto quando qualcosa ti ricorda il pezzo in questione. Dylan regge il gioco. Si lancia in corse che somigliano a sconclusionate pur se originali e a volte geniali divagazioni: un grande musicista che sa usare la penna quanto la chitarra e racconta cosa evocano per lui alcune canzoni particolarmente suggestive. Inventa trame, scopre temi segreti, permette alle suggestioni di galoppare senza briglia.

Il Dylan storico della musica sferza l’America di oggi con la stessa spietatezza di quando, a 22 anni, la costringeva ad accorgersi che i tempi stavano per cambiare.

È UN TRUCCO, anzi un deliberato inganno. Filosofia della canzone moderna è un testo compatto e meditato. Si traveste da caotico affastellamento perché Dylan non serve mai al suo pubblico prodotti già confezionati, che chiedono solo di essere consumati. Bisogna saperlo leggere, restare vigili e lucidi, per scoprire che,occultata in una prosa alluvionale, offre una massa di informazioni necessarie per mettere a fuoco l’anima delle canzoni di cui tratta. O per accorgersi che, canzone dopo canzone, propone una visione precisa dell’arte e dell’arte popolare. Senza imporla, lasciando che siano le canzoni stesse di cui parla a suggerirla.
Il Dylan storico della musica sferza l’America di oggi con la stessa spietatezza di quando, a 22 anni, la costringeva ad accorgersi che i tempi stavano per cambiare. Non lo fa più dal pulpito del profeta apocalittico ma mettendo a fuoco il percorso involutivo di quel che più conosce e ama: le canzoni, i film, la cultura popolare. Saturday Night at the Movies dei Drifters, 1964, gli offre il destro per bersagliare un’industria del cinema in cui «sequel e remake escono dalla catena di montaggio con una frequenza allarmante e budget astronomici ma non riescono a recuperare la magia degli originali. C’è chi parla di rendere l’America grande di nuovo. Dovrebbe cominciare dai film».

SE LA MUSICA non fa più sognare è perché una strategia centrata sulla moltiplicazione dei mercati di nicchia la ha soffocata: «Tutte le canzoni parlano di una cosa sola e di una cosa in particolare. Non ci sono chiaroscuri, né sfumature, non c’è mistero. I sogni soffocano in questi ambienti non areati». Ma Dylan, che non rinuncerà mai a fustigare perché resterà sempre l’autore moderno più biblico che ci sia, non allude solo alla musica. La tendenza è generale ed è politica: «Il modo migliore per zittire la gente non è quello di toglierle il pulpito ma di dare a ciascuno il proprio pulpito separato».
La filosofia della canzone moderna parla di soldi e di sogni, di sesso e di guerra, di matrimonio e divorzio, di amore e vecchiaia, d’azzardo e tradimento perché di questo parlano le canzoni. E parla dei cantanti, senza i quali le canzoni sarebbero foglie morte, con una preferenza per quelli che non campeggiano in vetta, per Bobby Darin, un Sinatra senza fortuna, per nomi oscuri nonostante brillassero come Johnny Paycheck o Trudell. C’è tutto, come c’era tutto in Desolation Row, tenuto insieme dalla convinzione che ha ispirato ogni nota e ogni verso di Dylan: «Prendete due persone, una che studia teoria del contrappunto, l’altra che piange quando ascolta una canzone triste. Sul serio, chi delle due capisce meglio la musica?».

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