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Il miraggio di Gallo nelle sabbie dell’Egitto

Il miraggio di Gallo nelle sabbie dell’EgittoDavid Roberts, veduta dell’isola di File sul Nilo (dove Cornelio Gallo, prefetto d’Egitto, collocò una stele trionfale trilingue), con il tempio di Iside e il Chiosco di Traiano, 1838

Classici perduti Un ritrovamento papiraceo del 1978 ha riacceso il dibattito su Cornelio Gallo: iniziatore dell’elegia erotica latina, amico di Virgilio, ammirato dai poeti augustei

Pubblicato circa un anno faEdizione del 27 agosto 2023

Nel vasto arcipelago della letteratura latina perduta, che da sempre sollecita e sfida le ambizioni dei filologi, spicca un autore, un grande poeta (come viene accreditato già in vita dai suoi colleghi più autorevoli), la cui importanza è difficile sopravvalutare. Cornelio Gallo è probabilmente lo scrittore latino perduto (oltre a un gigante della poesia arcaica, Ennio) il cui miraggio più inquieta i sogni e le speranze degli studiosi, e ha stimolato un lavorio critico che è tuttora molto intenso.

Non è difficile capire la centralità della figura di Gallo in uno snodo cruciale sia della storia di Roma, tra la turbolenta fine della repubblica e l’inizio del principato, sia della storia letteraria latina, in cui egli fa da mediatore tra la raffinata cultura ellenistica (fu amico di Partenio e quindi ammiratore di Euforione, oltre che dei «neòteroi»), ricca di erudizione e dottrina, e la grande poesia augustea. Fondatore di un genere letterario, l’elegia erotica latina (notoriamente assai diversa dall’elegia greca), destinata, anche attraverso la mediazione del petrarchismo, a un grande futuro nella cultura europea, Gallo ne contraddice tuttavia uno degli assiomi fondanti, il rifiuto della carriera politico-militare in favore di una scelta di vita esclusivamente e polemicamente dedita agli affetti personali. Carriera che portò invece Gallo ai vertici del potere (Ottaviano lo nominò primo prefetto dell’Egitto appena conquistato dopo Azio) ma ne provocò poi anche la rovina (un’accusa di lesa maestà verso lo stesso princeps gli costò l’espulsione dal senato e lo indusse al suicidio, nel 26 a.C.) e, secondo una tesi controversa, la conseguente damnatio memoriae. Proprio quest’ultima (fondata su una notizia di Servio, il commentatore tardo-antico di Virgilio, ma di dubbia attendibilità, secondo cui la condanna avrebbe provocato la rimozione del finale originale del quarto libro delle Georgiche) avrebbe inibito la circolazione della sua opera, e ha inoltre alimentato il sospetto di una reticenza sul poeta condannato, il quale però continua a ricevere omaggi e ammirazione in tutta la grande poesia augustea. La tesi insomma sembra piuttosto rientrare nella costruzione di quel ‘mito di Gallo’ (il grande poeta vittima di un amore infelice e schiacciato da un potere spietato) che rende tanto più frustrante la perdita della sua opera e ‘tantalizzante’ il suo recupero.

Sono dunque molte le ragioni che hanno infiammato l’acume, e talora la fantasia più fervida, dei filologi nella ‘caccia a Gallo’, a cominciare dalle circostanze storiche che caratterizzano l’attività del poeta e la sua vicenda biografica. Di tutta la sua opera, una raccolta di quattro libri di elegie titolati Amores, ci resta appena una manciata di versi autentici (e anche, come vedremo, sospettati), appena una decina e per di più mutili, ritrovati nel 1978 in un frammento di papiro – di quello che sembra il libro latino più antico finora a noi pervenuto – conservato dalle sabbie egiziane, versi che si aggiungono a un pentametro che ci era già noto per tradizione indiretta. A questi versi oggi ritenuti autentici va forse aggiunto un gruppo di altri, o citati o riscritti molto da vicino, ricavabili dal componimento a lui dedicato dal suo grande ammiratore e amico Virgilio, cioè la decima ecloga. Nel corso della quale (ma senza dare indicazioni precise), nella descrizione del lamento del poeta per l’abbandono subìto dall’amata a vantaggio del potente rivale Antonio, il commento di Servio ci dice: hi … omnes versus Galli sunt, de ipsius translati carminibus («tutti questi versi sono di Gallo, tratti dalle sue poesie»). Ma quali, e quanti, sono i versi di Gallo trasferiti da Virgilio, e come va intesa questa translatio? e quanto siamo legittimati a ricavare di autenticamente galliano dai versi di Virgilio? Dubbi cruciali, ovviamente, sui quali gli studiosi continuano da sempre a interrogarsi e a speculare, prospettando ipotesi anche molto diverse tra loro.

Va da sé che il recente ritrovamento ha sviluppato la discussione su quanto esso conferma quello che sapevamo o congetturavamo su Gallo, e quanto di nuovo o di diverso aggiunge. E comunque al di là dell’evidenza testuale (e l’incertezza sulla reale consistenza del magro corpus di versi a noi rimasti), la fortunata coincidenza – così rara da indurre qualche filologo sospettoso a ipotizzare che il frammento sia il prodotto di un falsario – che in così pochi versi ci consegna il nome-sigillo dell’autore, quello dell’amata Licoride, cioè il canonico pseudonimo grecizzante usato dagli elegiaci e già da Catullo, ha acceso in questi ultimi decenni un intenso dibattito critico anche sul contesto del ritrovamento e sui molti interrogativi che il ‘nuovo Gallo’ ha suscitato. Il documento papiraceo (trascritto verosimilmente a Roma) è databile agli anni tra il 50 a.C., quando Gallo, pressoché coetaneo di Virgilio, era ancora ventenne, e gli ultimi decenni del secolo, e doveva far parte della dotazione libraria a disposizione dell’élite politico-culturale romana di stanza nella fortezza nubiana di Primis, un’élite che doveva ovviamente essere bilingue, ma che sappiamo anche competente di cultura e letteratura greca, almeno quel tanto che le rendeva familiare la lettura dei poemi omerici. Non stupisce troppo quindi che quella dotazione includesse anche l’opera del primo prefetto della nuova provincia, un’opera certamente di successo a Roma, specie a seguito dei riconoscimenti a Gallo tributati dai maggiori poeti del tempo, e della popolarità del genere letterario, l’elegia erotica, di cui più tardi Quintiliano lo riconoscerà fondatore, ma che di fatto appariva tale già ai lettori della decima ecloga (dove la vicenda di amore infelice è quasi un emblema di quel genere, così come il conflitto tra modelli di vita antitetici, in Gallo ancora compresenti).

Se il ritrovamento egiziano ha fornito materiale utile e stimolato un ricco dibattito tra gli storici sulla figura di Gallo e il suo ruolo politico (nonché un rinnovato interesse per la famosa stele trilingue di File, da lui fatta erigere per celebrare la propria azione militare), anche i filologi, nonostante una dissimulata delusione per la qualità non altissima dei versi di Gallo (qualcuno ha ricordato come non casuale la ‘durezza’ imputatagli da Quintiliano, un tratto evidentemente ancora arcaico, pre-augusteo, del suo stile), hanno promosso una vivace discussione su alcuni punti controversi, come il formato delle sue elegie: perché la brevità di quelle trasmesse dal papiro (sembrerebbero addirittura tre in una decina di versi, se non si vuole pensare a un’unica elegia tutt’altro che fluida nei passaggi) le assimilerebbe piuttosto a epigrammi. Se uno degli epigrammi, di encomio verso Ottaviano, riflette la dimensione politica della personalità dell’autore, la presenza in un altro del termine-chiave domina pare confermare che il tema più rappresentativo del genere elegiaco, il servitium amoris, prima che in Tibullo e Properzio doveva essere presente già in Gallo (vissuto forse, come si accennava, come conflitto personale di modelli etico-culturali).

Una via molto battuta in precedenza, e che continua a esserlo dopo il ritrovamento di Qasr Ibrîm, è stata la ricostruzione indiziaria di un linguaggio poetico di Gallo, di alcuni suoi stilemi peculiari, sulla base di coincidenze tra Virgilio e altri poeti augustei, in primo luogo Properzio (basta vedere lo spazio che a Gallo riserva la corposa monografia di Francis Cairns, Sextus Propertius, Cambridge University Press 2006, anche sulla dibattutissima identificazione dei vari personaggi di nome Gallo che compaiono nel poeta umbro). Ad esempio, la cosiddetta apposizione parentetica del tipo raucae, tua cura, palumbes («le roche colombe, la tua passione»), di Virgilio, Ecloghe 1.57 (ma frequente in tutta la sua produzione giovanile), è anche nota come schema Cornelianum da quando Otto Skutsch (1956) propose di vedervi un manierismo amato da Gallo (anche se sappiamo a lui antecedente); e quindi la ripresa del verso virgiliano in Properzio 3.3.31 volucres, mea turba, columbae («le alate colombe, stormo a me caro») sarebbe la classica window-allusion, cioè un’allusione e un omaggio anche al poeta amico. Un raffinato tic espressivo che riappare in altri contesti marcati, come ad esempio in una sezione di carattere poetologico dei libri 5 e 6 delle Metamorfosi ovidiane (un tema rilevante in Gallo, come conferma nella sesta ecloga il riferimento all’iniziazione poetica e alla sua tradizione esiodo-callimachea), e che sembrerebbe confermare la matrice galliana di quel procedimento.

Così, l’uso metonimico di cura per indicare la persona oggetto delle premure e sofferenze dell’innamorato, attestato la prima volta proprio nel lamento virgiliano nella decima ecloga per le pene dell’amico (vv. 22-3 ‘Galle, quid insanis?’ inquit; ‘tua cura Lycoris / perque nives alium perque horrida castra secuta est’: «‘Gallo, perché questa follia?’, disse; ‘il tuo amore, Licoride, ha seguito un altro attraverso le nevi e gli orribili accampamenti’»), e ripreso più volte negli elegiaci latini (Tibullo 2.3.31; Properzio 1.1.35-6; 2.34.9; Ovidio, Amores 1.3.16; 3.1.41; Heroides, 15.123 ecc.), ne ha fatto supporre un’origine in Gallo. Come accade anche per il verbo cantare, che ricorre ben quattro volte nel lamento dell’ecloga decima (vv. 31, 32, 41, 75) e poi ancora nella sesta (v. 71, nel contesto della consacrazione poetica di Gallo), per poi tornare spesso in poesia elegiaca (ben dieci occorrenze in Properzio), facendo perciò sospettare un’origine galliana. Ma anche nella produzione poetica minore d’età tardo- o post-augustea, come la Lydia pseudo-virgiliana, un componimento in esametri sulle sofferenze di un poeta innamorato per la perdita della sua donna (evidente l’analogia con la decima ecloga), si sono suggerite tracce della presenza diffusa di Gallo, come la ripetizione marcata dell’epiteto formosus, o la triplice occorrenza in clausola del termine amores (vv. 15, 36, 72), frequenza che già nell’ecloga virgiliana (vv. 6, 34, e 53-54, con vistoso effetto di refrain) aveva fatto supporre un mirato rinvio a Gallo e al titolo (Amores) della sua opera.
Insomma, pur nella sua brevità il frammento ci dice molto di Gallo, ma certo è ben lungi dall’esaurire la curiosità sulla sua opera: tale è l’importanza di questa e del ruolo del poeta che è facile immaginare continuerà a essere un desideratum tra i maggiori della letteratura latina.

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