Il FMI questa settimana ha aggiornato, attraverso il nuovo Word Economic Outlook, le previsioni sugli andamenti dell’economia globale. In questo rapporto si ipotizza un discreto miglioramento delle stime di crescita dell’Italia che aumenterebbero dal +4,4% previsto ad aprile al +4,9% per l’anno in corso. Ciò che i mezzi di comunicazione nostrani hanno enfatizzato oltremodo è il raffronto con una Germania che non vede migliorare le previsioni di crescita, rimanendo ferma a un +3,6%. Molti osservatori affermano che l’Italia quest’anno crescerà «molto di più» della locomotiva tedesca.

Tale interpretazione appare più consolatoria che fondata sul senso delle proporzioni. Il paragone, per risultare corretto, dovrebbe rivolgere lo sguardo anche al passato, cioè al 2020. Lo scorso anno la Germania, a causa del Covid, ha registrato una contrazione del Pil pari al 5%, mentre l’Italia ha totalizzato un -8,9%. Che le previsioni per il 2021 prefigurino una crescita del Pil italiano superiore di 1,3 punti percentuali rispetto a quello tedesco non appare di per sé un dato significativo. È chiaro che non siamo di fronte a un ritorno di performance da miracolo economico, quanto a un effetto rimbalzo. Il 2020 è stato l’anno della peggiore contrazione dell’economia italiana dal Secondo dopoguerra, basti pensare che nell’orribile 2009 si registrò un -6,6% del Pil.

Piuttosto si dovrebbe sottolineare come tale rimbalzo si otterrà a fronte di un deficit cospicuo che non permetterà comunque di tornare ai livelli del 2019. Non solo, mentre l’Italia e l’Europa restano lontane dai livelli pre-covid, gli Usa riescono a tornarci proprio in questi giorni, mentre la Cina li ha già abbondantemente superati. Sulla declamata crescita Marco Fortis sulle pagine del Sole 24 Ore si è spinto fino a parlare di un vero e proprio ««trend»» di medio termine, ma l’unico trend di medio termine lo ha sottolineato Gustavo Piga sulle pagine dello stesso quotidiano: l’Europa avrà una posizione fiscale non espansiva per il 2022, rispetto al 2021 e al 2020, mentre rimarrà con un leggerissimo segno più sul 2019. Sono dati forniti dalla Commissione Europea, che rimarcano anche come L’Italia sarà il paese meno espansivo tra i principali. Tutto questo mentre Usa e Cina spingono sull’acceleratore degli investimenti pubblici. Sempre di recente il Rapporto Istat sulla fiducia dei consumatori e delle imprese, insieme all’analisi dei settori industriali fornita da Intesa San Paolo-Nomisma, parlano di un ritorno della fiducia ai valori del 2005 e di importanti traguardi sul fronte dei ricavi per il settore manifatturiero che supererebbe gli andamenti di paesi come Germania e Francia.

Questi dati vengono commentati non come il frutto di un’illusione ottica e neppure del rimbalzo rispetto alla drastica caduta precedente, ma in considerazione della loro consistenza rappresenterebbero l’indice di una robusta ripartenza. Salvo poi precisare, come fa Paolo Bricco sempre sul Sole 24 Ore, che l’elemento che andrebbe sottolineato è che in questo frangente l’industria italiana ««non sia stata dimezzata, cancellata, eliminata»».
Considerato che il comparto manifatturiero italiano per ordine di grandezza ricopre il secondo posto in Europa dopo la Germania, tale considerazione non è indice di particolare salute. Come se all’improvviso venissero rimossi i limiti strutturali di cui da anni si parla. Insomma, siamo sicuri che dietro il rimbalzino ci sia un trend? Basteranno i ««4 pilastri»» individuati da Fortis (industria 4.0; edilizia; Pnrr e fiducia in Draghi) o sono essi stessi il segno di una dinamica congiunturale?

Al di là degli incitamenti a carattere emotivo, si tratterebbe di comprendere come risolvere problemi di produttività, di modeste dimensioni, di costi crescenti delle materie prime, senza scaricare le soluzioni sulle spalle del mondo del lavoro, ma rilanciando il ruolo del pubblico. Ma di questo sembra veramente non si possa parlare.