Il miracolo economico del fungo spuntato a Hiroshima
Antropologia L’epopea del «matsusake» che dopo il Giappone è diventato una prelibatezza dai prezzi altissimi. Anna Lowenhaupt Tsing utilizza la caccia a un micete come metafora dell’economia globale
Antropologia L’epopea del «matsusake» che dopo il Giappone è diventato una prelibatezza dai prezzi altissimi. Anna Lowenhaupt Tsing utilizza la caccia a un micete come metafora dell’economia globale
Tra le rovine del capitale cresce un fungo che fa sopravvivere. Questo il messaggio o l’auspicio che recapita l’ultimo lavoro dell’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing, The Mushroom at the End of the World (Princeton). Titolo bello quanto doppio: non per il mushroom, che è il matsusake (fungo pregiato che si nasconde nella landa giapponese e nelle foreste del nord europeo e del Pacifico occidentale dando vita a una caccia al tesoro globale), piuttosto per la fine, che invece di limitarsi alla geografia si carica di un particolare misticismo da fine dei tempi. Prima del matsusake, quindi, vale la pena mettersi sulle tracce del percorso dell’antropologa che insegna a Santa Cruz, riflesso di una consapevolezza più generale.
Perché via via che il mondo si è (ri)scoperto popolato da differenze reattive e affermazioni culturali più o meno potenti ma dirette, che accompagnano, denunciano (e a volte rischiano di coprire o ribadire) feroci disuguaglianze, le scienze sociali si sono accorte di vivere nel vortice di una sorta di anthropological turn. In questa svolta uno spazio non marginale lo occupa proprio il lavoro di Tsing. Già una decina di anni fa una sua etnografia dedicata alle foreste pluviali del Borneo, catturate nella morsa predatoria delle multinazionali del legname e al centro delle proiezioni divergenti di governo indonesiano e organizzazioni di nativi e attivisti, ribadiva l’impossibilità di concepire un locus ignorando la trama di sovrapposizioni che lo ridisegnano.
FRICTION, questo il titolo del libro, indicava una nuova rotta al discorso antropologico. E si trattava davvero di una global ethnography, ma con una differenza di fondo rispetto all’ipotesi multi-sites elaborata da George Marcus: non più collegare siti seguendo strisce di racconti disposti linearmente, aldilà dei luoghi, ma provare a intercettare l’articolazione conflittuale che ridefinisce il senso di ogni luogo. Quel lavoro, da questo punto di vista, ha aperto una strada, associando il ritorno potente di voci e storie situate a una particolare immaginazione geografica, in sintonia con gli approdi critici della «svolta spaziale» del decennio precedente e le esplorazioni di autori come Saskia Sassen e Neil Brenner. Scommetteva sulla possibilità di riprendere un discorso sulle differenze intrecciandolo ai violenti processi materiali di rescaling che investono ogni luogo, a sud come a nord, a est come a ovest.
RACCONTARE STORIE localizzate a partire dalle frizioni generate dalle filiere del supply chain capitalism significa quindi abdicare a un’unità di misura e cogliere nell’opposizione tra scale un tratto strutturale delle attuali logiche estrattive e differenziali di accumulazione: la co-presenza di una pulsione regolativa imposta dalla legge del valore e di processi occasionali e non riproducibili di piracy e di razzia (la devastazione di una foresta). Era questa la direzione suggerita da Tsing, nel tentativo di restituire la molteplicità dislocata di voci, tempi e spazi interpellati dal capitale descrivendo il modo in cui quelle voci, quei tempi e quegli spazi a loro modo anticipano, si inseriscono e reagiscono al suo apparato di cattura. Poi, però, su quella rotta si è innestato un racconto, come una quadratura del cerchio, che ha finito per conferire a molti discorsi sulla differenza toni da «end of the world» e contribuito in un certo senso ad annacquarli, a renderli più digeribili.
Vale in qualche modo anche per questo viaggio intorno al matsusake, frutto prezioso di una «terza natura» che dopo la naturans e quella naturata dal capitalismo sembra suggerire una vita nonostante il capitalismo. Come un diario, inframmezzato da immagini ricercate, souvenir personali, viaggi agli antipodi, storie di conflitti invisibili e miti della foresta, il libro si immerge nel profumo autunnale che avvolge la stagione della crescita di questo particolare «compagno non umano», sulle tracce di tutto ciò che converge nella sua raccolta e commercio. La caccia a questa sorta di tartufo d’oriente, infatti, dà vita a una delle più anomale filiere globali, tra gourmet giapponesi, trader finanziari, compagnie di export finlandesi, multinazionali del legname, ma anche migranti coreani in Oregon, combattenti hmong, allevatori di capre cinesi oltre a gruppi di attivisti ed ecologisti sparsi per il mondo.
A PARTIRE DA UN SIMILE MOSAICO Tsing delinea una sorta di ecologia micotica le cui terminazioni dimostrano come tutto sia legato, connesso, in relazione: funghi, foreste più o meno contaminate, parassiti, agenti chimici, rotte migranti e quotazioni di mercato. E in queste catene rintraccia la possibilità di forme di convivenza in tempi di distruzione ambientale di massa. La vita, tra le rovine del capitalismo, nel mix di estrazione e distruzione di ogni ecosistema, è possibile solo se fondata sulla cooperazione tra umano e non. Ecco il segreto del matsusake: opporre al tramonto di ogni racconto di progresso e di ogni violento mito di crescita, un mondo post-illuminista che valorizzi l’incrocio disordinato di ecosistemi semi-naturali e semi-alterati dall’uomo. Il fatto è che l’estetica post-human a cui Tsing sembra aderire si fa etica: emerge così sullo sfondo un discorso di valore, pluralista, ovviamente ibrido e antigerarchico, che premia quanto è strano, marginale, inaspettato, contingente, vulnerabile e soprattutto precario. Se è questa la tale of diversity del matsusake, il problema, forse, è capire di quale valore stiamo parlando.
Come succede a volte con i mosaici, anche in quello eterogeneo costruito da Tsing le singole tessere possono rivelarsi più avvincenti del disegno d’insieme. Vale, ad esempio, per le finestre aperte su situazioni incastonate che delineano l’intrico di striature e aperture alla base dell’esperienza di soggetti e comunità coinvolti in uno dei più anomali circuiti di accumulazione. Così, tra le pagine, prende corpo una critica dell’economia politica del matsusake a partire dalle oscillazioni speculative tra dollaro e yen, per poi concentrarsi sulle dinamiche estrattive che assorbono circuiti fondati sul dono nella spirale di una supply-chain globale centrata su una merce ad altissimo valore aggiunto (e non propriamente etico). Vale, ancora, per la capacità di descrivere una serie di ritorni ibridi e davvero «sporadici» alla reciprocità e a modalità che indicano altrettante forme di cooperazione e sopravvivenza tra le rovine.
A partire perlomeno da Walter Benjamin sappiamo cosa significhi vivere nelle rovine, alla ricerca di futuri possibili che non sono stati. Tsing ne è consapevole, limitandosi però a indicare quanto, in mezzo a incontri imprevedibili, persiste, sussiste e resiste tra le macerie del (tardo)capitalismo, magari fiutando affairs che si mescolano al profumo del matsusake e gli conferiscono tutt’altro valore. Il fatto è che aldilà di queste rovine non sembra esserci molto altro spazio, e neppure tempo: solo la possibilità di starci dentro. Ma in che modo? Se questa vita possibile è una tale of diversity, di che differenza stiamo parlando?
CHE LO SPIRITO del neoliberal capitalism insegua il contingente e coltivi la differenza non è messaggio così sovversivo: fa parte dell’attuale etica ed estetica dell’economia (anche sociale) di mercato. Del resto la stessa Tsing ha messo in guardia sulla natura «selvaggia» del capitale, indicando come le merci oggi siano prodotte attraverso un mix di processi di valorizzazione convenzionali e di razzia di quanto terra e umani producono «spontaneamente». Se si pensa che il capitale esiga solo standardizzazione e uniformità si perde di vista la vecchia e sempre nuova capacità di arruolare (un tempo si diceva sussumere) l’inatteso, il difforme, il contingente. Dietro al ritorno delle differenze incombe sempre uno spettro estrattivo che mette a valore la differenza.
IL DUBBIO allora è che questa (terza) natura impura, profanata, ibrida e precaria, prodotta obtorto collo dal capitale, non sia in realtà anche confezionata su misura, a sua immagine e somiglianza. Si può fantasticare leggendo le tales of diversity piene di incontri imprevisti che scandiscono questo viaggio sulle tracce del matsusake, ma resta intatta una domanda di fondo: sono storie diverse da cosa? Perché quella del capitale non è forse anch’essa una tale of diversity? Che cosa, nella cooperazione, davvero non coopera con il capitale? Forse rispondendo a questa domanda potremmo dare un altro significato alle rovine e al capitale stesso, intravedendo forme di vita (umane e non) che possono riscattare le prime e vivere oltre il secondo.
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