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«Il mio nome è Carlo Piaggia»

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 7 mesi faEdizione del 1 marzo 2024

Edmondo De Amicis a proposito di Carlo Piaggia (1827-1882), nell’«Almanacco del Fanfulla» per l’anno 1878, scrive che «chi si è immaginato, prima di vederlo, una figura di esploratore africano, un viso ardito e terribile, rimane, conoscendolo, molto disingannato. È di statura appena media, grigio, barbuto, magrissimo. Celia egli stesso sulla sua magrezza, dicendo che di tutti i viaggiatori è quello che gettò sul suolo dell’Africa l’ombra più sottile». La battuta, ha osservato Giovanni Mariotti, «può essere applicata non solo alla realtà somatica, ma anche a quella intellettuale e morale di chi la pronunciò».

I lunghi soggiorni ed i viaggi nelle zone inesplorate dell’Africa hanno principio nel 1851 quando, il primo maggio, il giovane mugnaio lucchese si imbarca a Livorno e raggiunge Tunisi dove lavora come giardiniere; e proseguono fino alla morte che coglie Piaggia nel 1882, ormai circondato da una grande fama, a Carcoggi sulla sponda del Nilo Azzurro, dove l’aggravarsi delle sue condizioni di salute lo hanno costretto ad una sosta mentre è in viaggio per Fadasi, in Etiopia. Scrive Giovanni Alfonso Pellegrinetti: «Spirò il 17 gennaio. Il suo corpo, avvolto in un bianco lenzuolo, fu seppellito ai piedi di un gigantesco baobab. Rifiutò di essere seppellito nel cimitero di Khartum, perché là, a suo giudizio, si trovavano troppi avventurieri e schiavisti».

Tra i suoi viaggi certo il più celebrato resta quello che lo porta a risiedere tra il novembre del 1863 e il luglio del 1865 all’equatore, solitario ospite bianco, presso i Niam Niam, popolo circondato dal mistero ed evocato, tra leggenda e realtà, come di sanguinari e di antropofagi. Così Piaggia descrive il suo primo incontro, al calar del giorno, il 14 novembre, con il «capo di quella tribù chiamato Tombo, uomo dai 55 ai 60 anni; alto di persona anche fra gli altri, scarno di membra e snello di movimenti, con muscoli prominenti, di viso lungo e magro ove traspariva grossa ossatura di bocca, con denti bianchi al par dell’avorio. Le palpebre calate che doveva mediante la gigantesca statura inalzare la testa per guardare in viso altrui, dei più grandi delle comuni stature. Portava alla dritta mano tre lancie, alla sinistra un grosso scudo di giunchi tessuti, ed in varii colori. Aveva seco un seguito di 60 giovani della più bella età, e tutti armati di lancie e di frecce e scudi, nonché piccoli coltelli». Tombo è sorpreso di avere innanzi un uomo bianco, solo, che dichiara: «il mio nome è Carlo Piaggia». Piaggia, che ci dice: «Il selvaggio non differisce in niente al di là della razza umana. Il selvaggio cresce in selve come in casa l’uomo domestico». Le pagine nelle quali egli racconta la sua vita tra i ‘selvaggi’ Niam Niam sono memorabili tra quante celebrano, per dirla con Pico della Mirandola, la hominis dignitas, la dignità dell’uomo.

Alla notizia della morte di Piaggia, l’esploratore tedesco Georg Schweinfurth il 3 febbraio 1882, presso la Società geografica kediviale del Cairo, tiene un discorso commemorativo. Ne riporto alcuni passi. «Viaggiava sempre solo, senza conforti di sorta, che il progresso moderno permette ai ricchi. Era un pellegrino inoffensivo, imponeva il rispetto dovuto alla sua dignità coraggiosa, ispirava confidenza, ciò ch’è importante in Africa come in Europa e che è un omaggio dovuto alle anime gentili. È vero che Piaggia portava sempre seco un fucile, ma non lo adoperò mai contro gli uomini, sibbene per inviare in Europa una delle più ricche collezioni scientifiche. Quell’uomo bianco restò scolpito nella memoria dei selvaggi, che lo consideravano come un essere caduto dal cielo, come un presente mandato da dio: pagani e musulmani si disputavano la sua amicizia». E inoltre, riguardo alle sue testimonianze sui Niam Niam, Schweinfurth aggiunge: «Quei fogli raccontano una pagina nella storia dell’Africa, raccontano i costumi e le abitudini di un gran popolo, quello dei Niam Niam, di cui non si conosceva che il nome e le leggende esagerate».

Mi piace pensare che la lettera dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica sia debitrice dello spirito di Carlo Piaggia in un mondo, allora come oggi, insanguinato dalla ferocia degli uomini civili.

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