Il mio destino è il sole. La Cina di Hai Zi tra natura e mal di vivere
Ogni qual volta si apre una breccia in quel continente a parte che sono la cultura e la lingua cinese, mi rendo conto di quanto ristretto sia lo spioncino da […]
Ogni qual volta si apre una breccia in quel continente a parte che sono la cultura e la lingua cinese, mi rendo conto di quanto ristretto sia lo spioncino da […]
Ogni qual volta si apre una breccia in quel continente a parte che sono la cultura e la lingua cinese, mi rendo conto di quanto ristretto sia lo spioncino da cui oggi un osservatore, magari anche un poeta o un autore, possa guardare al di fuori del proprio mondo. Che si tratti di un eremita finora sconosciuto che ha vissuto in una capanna sulle montagne Zhongnan, per la prima volta tradotto in una lingua occidentale, o che si tratti di una voce della recente letteratura, la Cina si manifesta un enorme catalogo delle forme poetiche e letterarie.
Hai Zi, nome d’arte di Zha Haisheng, nasce nel 1964 nel villaggio di Chawan, nella provincia dell’Anhui, è figlio di contadini ma dimostra un talento precoce che gli consente di entrare in università, a Pechino, a quindici anni e di laurearsi a diciannove. Una vita precaria, dedita alla letteratura, pochi amori temporanei, e un appartamento nella vasta periferia che circonda la capitale. Qui passa il tempo a scrivere, a pensare, a camminare nelle campagne.
Autore concreto, alla ricerca di punti di contatto col mondo reale, e quindi materico, elementare, paesaggistico e naturalistico. Lo confessa lui stesso: «La poesia, nel profondo, è ricerca di contatto con la sostanza». Ma ogni tanto visionario, e forse i versi più affascinanti sono proprio quelli in cui si solleva dalla polvere del mondo e riesce a penetrare il tempo.
Chi dialoga silenziosamente con la natura spesso si incarna in altri elementi: può farsi uccello, può farsi volpe, può farsi ruscello. Hai Zi arriva addirittura a sostituire la propria dimensione-funzione di uomo con quella di una stella: «scelgo la professione eterna / la mia professione diventare a vita sole». Sole che non teme il tempo, che non teme il freddo e che non teme la solitudine. Non ha nemmeno bisogno d’amore poiché è il donatore universale, indiscriminato, in ogni ora del giorno non sceglie chi nutrire e riscaldare, opera da sole poiché è sole. Un uomo invece sceglie cosa essere, e quando esserlo. Hai Zi non vuole scegliere, vuole seguire la legge della fisica, assoggettarsi ai comandamenti senza discussione imposti dalla chimica, essere elettrolisi e non soggetto all’opzione di volontà e desiderio.
Sappiamo che Hai Zi scriveva spesso di notte, nella sua piccola abitazione amava consumarsi in un minuzioso laborio crepuscolare, e noi respiriamo, navigando le sue parole, questo senso di impotenza, questo disagio cosmico, quel male di vivere che in qualche misura lo accompagnava. Ma raramente facendolo scivolare in una visione vittimistica, certo lui stesso ci informa che beveva la sua stessa ombra, qualcosa che avrebbe di certo condiviso con tanti nostri poeti, magari un Foscolo, magari un Leopardi, o magari una Claudia Ruggeri. Hai Zi si è suicidato gettandosi sotto un treno a 25 anni, nella primavera del 1989, poche settimane prima della sanguinosa repressione di piazza Tienanmen. Quando morì era conosciuto da pochi letterati, oggi è amato, letto, preso ad esempio in quella generazione ibrida e eterogenea dei «poeti oscuri» che hanno innovato le patrie lettere negli ultimi due decenni dello scorso millennio.
Le poesie di Hai Zi portano per titolo Un uomo felice, sono edite in una valorosa collana – ottima carta, pregevole curatela e copertine firmate da Maurizio Ceccato – pubblicata dall’editore romano Del Vecchio. Vi sono apparsi Carol Ann Duffy, Stephen Dunn, Jo Shapcott e Hans Sahl, voci che dovreste e dovremmo leggere con attenzione.
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