Visioni

«Il mio corpo per rivendicare chi siamo», l’arte decoloniale di Susana Pilar

«Il mio corpo per rivendicare chi siamo», l’arte decoloniale di Susana PilarUna foto della performance "Dibujo intercontinental"

Mostre L'artista cubana ha inaugurato "Empatía", la personale alla Galleria Continua di San Gimignano, visitabile fino al 31 marzo. Performance, origami, haiku per raccontare il razzismo

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 10 febbraio 2024

È un’osservatrice attenta della storia sociale l’artista Susana Pilar. Nata a L’Avana nel 1984, nelle sue opere indaga istanze riguardanti il colonialismo, la memoria collettiva e il razzismo.
La performance Dibujo intercontinental è emblematica del suo modo di operare. Ha trascinato con una corda legata alla vita una barca per rimettere in scena le rotte degli schiavi e la morte di coloro che hanno perso la vita in mare. «Il mio corpo, discendente di migranti costretti con la forza a emigrare dall’Asia e dall’Africa a Cuba, è l’archivio della mia memoria. Le narrazioni orali della mia famiglia sono il mio libro di studi. I miei antenati abitano il mio corpo e con esso genero azioni che rivendicano ciò che siamo» ha affermato all’inaugurazione di Empatía, la sua mostra personale alla Galleria Continua di San Gimignano, visitabile fino al 31 marzo.

OLTRE alla documentazione fotografica di Dibujo intercontinental, realizzata per la Biennale d’Arte di Venezia del 2017, la mostra raccoglie altri lavori uniti dalla stessa volontà di indagare la storia dei vinti e non quella dei vincitori. L’opera Historias Negras è composta da origami che aveva creato nella performance dall’omonimo titolo. «Sono stata nella Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone per comporre la storia della mia famiglia di cui non esistono documentazioni negli archivi de L’Avana. Ho realizzato gli origami con i piedi, per ricordare la mutilazione delle mani inferta agli schiavi che cercavano di fuggire, gli origami rappresentano animali, case, oggetti che sono stati depredati durante il periodo coloniale» ha precisato.

La scelta di adottare l’archivio come dispositivo narrativo per rivendicare eventi collettivi ricorda Derek Walcott quando scrive che «le diaspore sono intese come assenza di rovine» e il lavoro compiuto da INSTAR, Instituto de Artivismo Hannah Arendt, attivato da Tania Bruguera nella capitale cubana. L’Istituto raccoglie archivi di artisti e poeti cubani e promuove campagne di supporto ai prigionieri politici. «La situazione a Cuba è molto difficile, molti artisti se ne sono andati e altri sono in carcere. L’auto esilio è una scelta e una necessità. Da diversi anni vivo in Europa ma continuo ad occuparmi delle iniquità e delle tante forme di razzismo presenti a Cuba e nella società contemporanea».

NELLA PERFORMANCE El Tanque la madre dell’artista le stirava i capelli con una piastra per farle diventare i capelli lisci. «Sono cresciuta con l’idea che per essere bella dovevo avere i capelli lisci. E pensavo che questo fosse normale. Con El Tanque ho protestato contro gli standard coloniali di bellezza a cui siamo stati costretti a sottostare, come persone di colore». I capelli sono un elemento molto importante dell’identità nera, come sottolinea Simone Browne nel libro Materie oscure. Dark matters. Sulla sorveglianza della nerezza, in cui esamina e mette in relazione la storia della schiavitù e la sorveglianza digitale contemporanea.
Anche alla Galleria Continua Pilar ha realizzato una performance, in cui lanciava con una fionda piccoli pezzi di carta che le persone presenti erano invitati a raccogliere, su cui aveva scritto degli haiku. In galleria ha installato una grande tela bianca in cui i visitatori sono invitati a scrivere una parola riguardante una loro virtù e/o debolezza. «Con il mio lavoro cerco di decolonizzare il pensiero, di creare dialoghi e empatia, come mi suggerisce bell hooks. Il suo femminismo genera contro-saperi che ci permettono di agire in modo diverso».

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