Visioni

Il mio Apollo/Adonis, passato e presente dell’America

Il mio Apollo/Adonis, passato e presente dell’AmericaMichael B. Jordan e Sylvester Stallone, sotto il regista Ryan Coogler

Intervista Ryan Coogler, regista afroamericano, dirige «Creed», lo spinoff di «Rocky» in cui fa suo in modo personalissimo il mondo del pugile, rispettandone sfumature e valori

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 7 gennaio 2016

Tecnicamente parlando uno spinoff, il rilancio di una franchise a partire da un personaggio diverso della storia, Creed (nelle sale italiane dal 14 gennaio) il grande ritorno di Rocky sotto molti punti di vista. Sylvester Stallone non firma la sceneggiatura e la regia ma, come il suo amato pugile di Philadelphia in questo film, rimane nell’angolo del quadrato, vigile, generosissimo, protettivo, e con un’interpretazione da Oscar. Il nuovo campione sul ring (Michael B. Jordan), si chiama Adonis ed è il figlio illegittimo di Apollo Creed, lo storico avversario di Rocky e il suo migliore amico.

Dietro alla macchina da presa, il «nuovo campione», a cui Sly ha affidato la sua creatura più preziosa, è Ryan Coogler, ventinovenne regista afroamericano. All’attivo finora solo un piccolo film, molto bello, Fruitvale Station (sulla morte di Oscar Grant, ucciso dalla polizia di Oakland la notte di capodanno del 2009), Coogler fa suo in modo personalissimo «il mondo» e le storie di Rocky rispettandone allo stesso tempo tutte le sfumature, le sensibilità e i valori. È un passaggio di consegne emozionante che ci ricorda ancora una volta la profonda, complessa, intelligenza filmica di Stallone. Abbiamo intervistato Ryan Coogler per telefono, dalla California.

È vero che pensavi a questo film già prima di girare «Fruitvale», e che è stato influenzato dal rapporto con tuo padre?

Sono cresciuto a Oakland, come tutta la mia famiglia. Il mio era un padre giovane, aveva poco più di vent’anni quando sono nato – un uomo atletico, fisicamente molto forte. Da piccolo, guardavamo insieme i Rocky. Lo vedevo molto coinvolto –si arrabbiava, piangeva. Solo dopo ho scoperto che quelli erano i film che aveva guardato con sua madre, che è morta di cancro quando io avevo quattro anni. Anche mio padre si è ammalato, nel 2011, quando sono uscito dalla scuola di cinema e stavo scrivendo Fruitvale è diventato debole, perdeva le forze a vista d’occhio. Così ho immaginato una storia sul rapporto tra Rocky e un ragazzo.

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«Fruitvale» è un film indipendente tratto dalla cronaca, «Creed» un film prodotto da una Major, su un mitico eroe della fantasia, eppure tra essi c’è un legame molto forte, in particolare per quanto riguarda il discorso sulla mascolinità, vista da una prospettiva afroamericana.

Per me un film comincia da una domanda. In questo caso: cos’è che fa di un uomo un uomo? Confesso che avevo un’idea un po’ antiquata: per me l’identità maschile era sinonimo di forza fisica, durezza di carattere. Mio padre – il mio modello- era così: uno che se lo prendevi dalla parte sbagliata faceva anche paura – veniva da un quartiere difficile della città. Quando la malattia si è portata via tutta la sua forza, non solo non poteva più «proteggere» la famiglia, bisognava aiutarlo in tutto, persino ad andare in bagno. Eppure era ancora mio padre. Ho capito allora che un uomo non sta nei suoi muscoli. Lo stesso vale per Rocky, che è un simbolo di forza, mascolinità, della volontà americana…

Il tuo film non racconta solo di una differenza generazionale, ma anche di classe. Adonis è l’opposto del cliché del giovane pugile che viene dai quartieri bassi. È anche l’opposto di Rocky: è cresciuto in una casa ricca, educato, formato in California, non nella Filadelfia proletaria.

Anche se non si sa molto del suo background, nei vecchi Rocky, Apollo appariva sempre come una figura d’élite. Aveva un’aura «imperiale», era chiaramente educato, e un professionista. Qualità molto rare per un personaggio afroamericano, specialmente nei film anni settanta. Anche Adonis doveva essere così. E mi piaceva esplorare perché, tutto ad un tratto, senta il bisogno di tornare nel mondo da cui viene Rocky.

Hai detto che Creed riflette il tuo rapporto con l’America…

Noi afroamericani abbiamo un rapporto con questo paese molto complicato – allo stesso modo Adonis non sa se amare o meno suo padre. Ma il film parla anche della necessità di accettare se stessi. Negli Stati uniti, come nel resto del mondo, è in corso un passaggio generazionale: il business, la leadership politica e sociale stanno passando nelle mani di persone con valori diversi e che vedono il mondo in modo diverso da chi si è formato negli anni 60/70. Io e il mio sceneggiatore siamo millennials: cosa facciamo di questo lascito, come guardiamo al passato e a queste persone che stanno invecchiando, e come reclamiamo invece una nostra identità? Il film è anche quello.

Stallone ha scritto tutti i Rocky e ne ha diretti cinque su sei. È chiaramente la creatura/creazione con cui si identifica di più. Come lo hai convinto?

Sly è un tipo molto generoso con le persone di cui si fida. Ma anche molto cauto. Credo di aver guadagnato la sua fiducia con il tempo, con l’etica del mio lavoro.

C’è stato un momento particolare?

Forse il giorno che ha incontrato Mike per la prima volta. Io e lui si stavamo parlando da mesi, eravamo ormai sulla stessa lunghezza d’onda. A quel punto però, la sua preoccupazione si è trasferita su Michael, un attore giovane, che lui non conosceva e sulle cui spalle stava il film. Ha la stoffa? Avrà voglia di metterci tutta la fatica fisica e mentale che ci ho messo io? — mi chiedeva Sly con apprensione. Ma il giorno che si sono trovati nella stessa stanza, la loro chemistry è stata subito fortissima: avevamo in mano qualcosa di speciale. A quel punto ha dato il via e, dopo due settimane di riprese, ha concluso che non aveva di che preoccuparsi.

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Quanto ha partecipato alla regia, specialmente quella degli incontri?

Rocky è sempre di fianco ad Adonis, in palestra e sul ring, eccetto che per le scene a Los Angeles. Ma Sly è passato sul set anche quando giravamo quelle. Ci ha lasciato molto spazio – come noi, voleva che il film e gli incontri di boxe fossero visivamente diversi, freschi. Ma se credeva che non stessimo spiegando qualcosa o aveva delle idee, contribuiva. Abbiamo parlato molto, prima di girare – con la sua esperienza a disposizione, non volevamo certo reinventare la ruota. È stato utilissimo anche nella scelta dei materiali da usare per il ring, dopo sei film sapeva esattamente cosa funziona e non. E quando volavamo fare delle cose un po’ folli – come girare un incontro in un solo movimento di macchina- era sempre entusiasta, anche se ci diceva che eravamo dei matti.

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