Il ministro dell’università Manfredi: «Più fondi alla ricerca e al diritto allo studio»
Intervista «Con il Recovery Fund amplieremo anche la No tax area per gli studenti» da 25 mila a 30 mila euro Isee. «A breve usciranno i nuovi bandi Prin, saranno ricchi e sosterranno in maniera significativa entrambi: sono 700 milioni in tre anni. È il bando più grande fatto negli ultimi anni». «Nella didattica a distanza è in corso una trasformazione importante, non priva di rischi. Mi auguro che ci sia un modo per confrontarsi con studenti e docenti»
Intervista «Con il Recovery Fund amplieremo anche la No tax area per gli studenti» da 25 mila a 30 mila euro Isee. «A breve usciranno i nuovi bandi Prin, saranno ricchi e sosterranno in maniera significativa entrambi: sono 700 milioni in tre anni. È il bando più grande fatto negli ultimi anni». «Nella didattica a distanza è in corso una trasformazione importante, non priva di rischi. Mi auguro che ci sia un modo per confrontarsi con studenti e docenti»
Il governo sosterrà la «no tax area» sulle tasse agli studenti nella legge di bilancio con un fondo di 165 milioni di euro. Il presidente del Consiglio Conte ha parlato di un finanziamento da 500 milioni.
Ministro dell’università Gaetano Manfredi a quanto ammonta lo stanziamento?
Ai 165 milioni per l’università vanno aggiunti 8 milioni di euro per Conservatori statali, le Accademie di Belle Arti e gli Istituti musicali (Afam) e 40 milioni in più per le borse di studio. Ci sono 300 milioni per gli enti pubblici ricerca e le specializzazioni mediche. Saranno interventi permanenti.
Le tasse universitarie ammontano però a 1,5 miliardi e l’università italiana resta tra le più care d’Europa. Ritiene che si possa arrivare a un provvedimento più ampio?
Faremo altri interventi con il Recovery Fund. Il nostro obiettivo sarà ampliare l’accesso all’università. Per il momento siamo intervenuti sulla fascia di reddito di circa 25 mila euro di reddito medio Isee, al netto delle scelte che faranno i singoli atenei. Vogliamo arrivare a 30 mila euro e aumentare la percentuale di studenti beneficiari di borse di studio in una proporzione europea.
Sono stati stanziati fondi per circa 6 mila ricercatori complessivi. Tuttavia abbiamo ancora un terzo dei ricercatori in meno della Germania, la metà della Francia e moltissimi sono i precari. State pensando a un piano straordinario e pluriennale di assunzioni stabili di ricercatori e personale?
L’obiettivo che abbiamo è avere perlomeno 2 mila posti di ricercatori all’anno, in maniera strutturale. Questo credo possa progressivamente avvicinare l’Italia alla media europea sulla ricerca pubblica. Ci auguriamo che il Recovery Fund sia l’occasione per recuperare il gap sulla media Ue. Se sono risorse europee per le nuove generazioni la prima cosa da fare è che queste generazioni abbiano una opportunità nella media europea.
Per arrivare alla media Ue manca lo 0,4 del Pil, 7 miliardi in più all’anno. Si parla giustamente di finanziare la sanità dopo anni di tagli. Lo studio, la didattica e la ricerca non dovrebbero avere la stessa importanza?
Credo di sì e mi sembra che i primi segnali che abbiamo dato sono significativi. I 500 milioni stanziati si sommano agli altri che vengono dal decreto rilancio. Quest’anno metteremo più di un miliardo, è un segnale buono. Dobbiamo fare di più, ma stiamo andando nella dichiarazione giusta.
L’economista Gianfranco Viesti ha dimostrato che negli ultimi anni c’è stato un travaso di fondi dagli atenei del Sud verso quelli del Nord. È possibile pensare oggi a cambiare le regole della Legge Gelmini e adottarne altre che permettano una formazione e una ricerca omogenee in tutto il paese?
Abbiamo fatto un primo intervento nel fondo ordinario di finanziamento degli atenei. Per la prima volta è stata introdotta la novità: nessuno può perdere fondi rispetto all’anno precedente e tutti hanno avuto di più e non di meno. È un segnale per le aree più deboli del paese che non sono solo a Sud. Voglio anche sottolineare che le migrazioni degli studenti dal Sud non dipende solo dalla mancata competitività delle università, ma da quella dei territori. Nella legge di bilancio interverremo con programmi specifici sul Mezzogiorno e sulle aree interne. Anche questo è un modo per evitare che ci sia una migrazione dei giovani.
Il sistema della ricerca tende a privilegiare la ricerca industriale che assicura un maggiore «tasso di successo»secondo gli indicatori dominanti, ma penalizza la ricerca di base o nelle scienze sociali e umane. In che modo pensa di invertire questa tendenza?
Dobbiamo valorizzare la ricerca di base e le scienze umane e sociali. Senza questi segmenti non abbiamo nemmeno la ricerca applicata frutto del loro lavoro. A breve usciranno i nuovi bandi Prin, saranno ricchi e sosterranno in maniera significativa entrambi: sono 700 milioni in tre anni. È il bando più grande fatto negli ultimi anni.
Nell’emergenza Covid lei ha detto che la didattica a distanza negli atenei è una rivoluzione che va governata. Che cosa intende dire?
Credo che un ateneo sia un luogo dove si costruisce sapere con il contatto fisico e lo scambio interpersonale. L’insegnamento va fatto in presenza. L’esperienza di questi mesi ha dimostrato che è possibile integrare l’uso delle tecnologie con la didattica in presenza. Questo ci permetterà di avere università più inclusive che arrivano a persone che fino ad ora sono state escluse.
Non c’è il rischio di trasformare gli atenei in università delle piattaforme e ridurre lo spazio di libertà rappresentato dalla lezione con strumenti di controllo e produttività?
Le lezioni devono restare e resteranno. Lo dico da professore. Penso anche che la lezione potrebbe diventare un momento di interazione e di costruzione comune della conoscenza con gli studenti, più che di trasmissione unilaterale con loro. Credo che sia questa l’evoluzione dell’università. Per farlo però bisogna avere più docenti per didattica a piccoli gruppi, strutture moderne, più finanziamenti.
C’è chi ritiene che la digitalizzazione dell’università spingerà gli studenti a iscriversi alle lezioni di atenei più attrezzati a livello internazionale. Questa nuova forma di competizione può penalizzare gli atenei italiani e creare ulteriori disparità tra quelli del Nord e del Sud?
È un rischio reale. Non possiamo fermare il cambiamento legato ai tempi, però possiamo rafforzare la qualità diffusa che oggi è alla base del nostro sistema universitario. Il nostro paese può aumentare la sua attrattività offrendo la capacità formativa ad altri continenti come l’Africa che sarà protagonista dell’università.
Ritiene che questa trasformazione vada discussa anche con i docenti e gli studenti?
Sì, sono d’accordo. Mi auguro che avvenga in modo che le decisioni siano le più condivise possibile.
È stato approvato un disegno di legge che ha liberalizzato l’accesso alle professioni come odontoiatria o psicologia. Non crede che questi giovani avranno bisogno anche di tutele sociali e sul lavoro o assunzioni nel pubblico impiego per essere meno precari?
È indubbio che dobbiamo sostenere l’accesso alle professioni dei giovani e lo si deve fare creando sistemi di incentivi. Dobbiamo evitare che i giovani professionisti siano penalizzati da costi eccessivi e da tariffe spesso fortemente penalizzanti e al ribasso. Il disegno di legge ci dà due vantaggi: inserire nel percorso curriculare i tirocini professionalizzanti e interagire di più con il mondo del lavoro. Fare insieme esame di laurea e di stato permette di risparmiare un anno di tempo.
Per commercialisti, architetti e ingegneri non ci sarà la liberalizzazione dell’accesso. Perché?
Sono professioni vigilate dal ministero della Giustizia e al momento non sono inserite nel disegno di legge. Ma ci sarà un dibattito parlamentare, ci sarà modo di tornare sulla questione.
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