Il ministero del lavoro: «Non c’è alcun taglio dell’orario di lavoro a parità di salario»
Decreto maggio Un equivoco è stato prodotto dall'uso singolare di una congiunzione in un retroscena fatto trapelare alla stampa. La precisazione è arrivata dopo il "no" ringhioso di Confindustria che aveva inteso una proposta sulla formazione professionale come il ritorno a un progetto della sinistra sindacale e politica. Nel governo continua lo scontro ideologico ai danni dei precari, poveri e invisibili a cui è negato un reddito di base strutturale. Ci sarà un "contributo d'emergenza" (non più reddito di emergenza) una tantum. Per ora prevale l'idea che le tutele sociali universali siano "sprechi"
Decreto maggio Un equivoco è stato prodotto dall'uso singolare di una congiunzione in un retroscena fatto trapelare alla stampa. La precisazione è arrivata dopo il "no" ringhioso di Confindustria che aveva inteso una proposta sulla formazione professionale come il ritorno a un progetto della sinistra sindacale e politica. Nel governo continua lo scontro ideologico ai danni dei precari, poveri e invisibili a cui è negato un reddito di base strutturale. Ci sarà un "contributo d'emergenza" (non più reddito di emergenza) una tantum. Per ora prevale l'idea che le tutele sociali universali siano "sprechi"
Il ministero del lavoro ha smentito di avere proposto una riduzione del lavoro a parità del salario. Nel «decreto maggio» il cui varo è stato nuovamente rinviato tra sabato e domenica (per ora), sarebbe invece prevista una «rimodulazione dell’orario» decisa per le «esigenze organizzative e produttive» delle aziende. Si tratterebbe di un rafforzamento delle politiche attive del lavoro, e della formazione professionale, senza aggravi per il datore né perdita del salario per il lavoratore. Il tutto finanziato con un fondo pubblico da oltre 200 milioni a disposizione degli accordi tra imprese e i sindacati «maggiormente rappresentativi». La precisazione è giunta ieri all’ora di pranzo dopo la ringhiosa reazione di Confindustria che al tavolo con il governo ieri mattina aveva già rifiutato una proposta che ha ricordato alla lontana un antico programma della sinistra sindacale, spesso accompagnato dalla rivendicazione del potere dei lavoratori nelle fabbriche e nella società. È bastata questa errata assonanza per risvegliare il desiderio di conflitto degli industriali. «Mi sembra come voler dire alle imprese “litighiamo”. Ma noi non abbasseremo la testa. Noi vogliamo rispetto per le imprese» ha detto il vicepresidente di Confindustria Maurizio Stirpe.
L’EQUIVOCO è stato generato da una «fonte» al ministero del lavoro ed è apparso sull’Ansa tra le 18,17 e le 18,24 di martedì. La proposta era la stessa contenuta nell’(auto)smentita di ieri, ma conteneva un singolare uso di una congiunzione. Nel testo si legge che si «potranno prevedere una rimodulazione, quindi una riduzione, dell’orario di lavoro». In questo contesto «quindi» significa «perciò, per tale motivo» e ha un valore causale: la «rimodulazione è una riduzione». Se non è così, bastava non parlare di «riduzione» che ha prodotto l’indignata reazione di Confindustria. Così è passato il messaggio che il governo si adegua ai suoi aut aut. Tutto questo per una congiunzione di troppo.
CONFINDUSTRIA dimentica che gli oltre 27 miliardi di casse integrazioni tutelano le imprese, e comportano un taglio dei salari dei lavoratori, Confindustria sostiene che le tutele sociali categoriali, inadeguate e a tempo decise dal governo per pochi mesi siano ispirate a «vecchie logiche ideologiche, basate più sul conflitto che sul dialogo, si parla di una nuova stagione dei diritti e non si tiene conto dei doveri» ha detto Stirpe ieri al Sole24ore in cui ha ribadito la richiesta al governo di «indennizzi e non prestiti». Il conflitto, per ora, è agito dall’alto e in maniera unilaterale all’insegna di un produttivismo poco avvertito dei costi umani e sociali in una pandemia. Su questa scia ideologica si muove anche Italia Viva. La ministra delle politiche agricole Teresa Bellanova ieri ha sostenuto che quello che era uno dei pilastri del «decreto maggio» – il «reddito di emergenza» derubricato a «contributo per l’emergenza» per poveri, precari e invisibili – è «assistenzialismo». La spesa sociale oggi è uno «spreco», e non il riconoscimento del valore della forza lavoro e della sua vita. Gli investimenti vanno alle aziende. Nel mondo in cui vive Matteo Renzi c’è la sensazione che uno «tsunami occupazionale si abbatterà tra qualche mese» e che la soluzione è «ripartire». Al netto dei rischi di un nuovo picco dei contagi, lo «tsunami» sarà causato da un’ondata di fallimenti che ha già portato il governo a formulare la stima di mezzo milione di disoccupati in più. Questo scenario si affronta con la trasformazione dell’attuale stato sociale in senso universalistico, non imponendo l’imperativo di un’economia senza diritti.
QUESTA DURA BATTAGLIA ideologica sembra prevalere nel Pd e tra i Cinque Stelle. Si vuole evidenziare il fatto che il «contributo di emergenza» non è un reddito di base per gli esclusi. Non lo è mai stato, ma solo avere evocato una simile prospettiva sta spingendo a concepire un’«una tantum» erogata dall’Inps in due tranche, e per una volta sola, tra 400 a 800 euro a seconda del quoziente familiare. Sarebbe stanziato, al momento, 1 miliardo per 1 milione di famiglie, 2,5 milioni di persone. Più di un mese fa si era partiti da tre miliardi. Gli esclusi saranno numerosissimi e modesto sarà l’importo percepito. E dopo? La ripresa non ci sarà, la recessione sarà feroce, la povertà devastante. Questa politica sta preparando il secondo tempo della crisi.
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