Lo storico o è animato da passione civile o non è, scrive Sergio Bologna che in Tre lezioni sulla storia (Milano, Casa della cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022), Mimesis (pp.174, euro 12, con prefazione di Vittorio Morfino) ha aggiunto al suo nome quello della madre Laura Buffon Fontegher. E non può che esserlo dopo i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, del saggio Sul concetto di storia di Walter Benjamin e il Marc Bloch di Apologia della storia, o mestiere dello storico. Tre intellettuali politici e partigiani, uccisi dal nazifascismo. Il loro lavoro ebbe un enorme impatto sulla generazione di Sergio Fontegher Bologna. E non solo sulla sua. La storia non è solo archivio, è filologia vivente, prassi istituente e militanza.

Parola dalla semantica complessa: militanza. Evoca lo schieramento in un esercito, l’idea di una guerra. In realtà, nella storia del movimento operaio, questi aspetti militari sono stati progressivamente assorbiti, e ribaltati, nella lotta di classe, cioè l’antitesi della violenza sia pure condizionata dal suo monopolio legale. Per Fontegher Bologna «militanza» è stata una forma conflittuale della cooperazione con «gli operai e i tecnici» nell’ambito del movimento operaio e, in generale, un’attività singolare intrecciata virtuosamente con i movimenti sociali. Stiamo parlando di un un’attitudine conoscitiva e pratica della realtà di ispirazione dialettica e cooperativa che alimenta un lavoro culturale opposto del «minoritarismo», irriducibile all’economicismo e al sociologismo, basato sulla pratica dell’inchiesta e sulla sua relazione con l’indagine storica.

IN QUESTA PROSPETTIVA lo storico matura un punto di vista politico sul presente. Non si angustia sul problema dell’obiettività, il suo problema è come il suo lavoro contribuisce a organizzare la trasformazione del presente. La ricerca storica è un lavoro collettivo, una polifonia di voci, l’espressione del plurilinguismo del reale, l’apertura della multiversità del divenire. Questi sono gli obiettivi della storia degli oppressi, il suo progetto è rendere visibile ciò che è stato rimosso. Il musicista compone una partitura, lo storico lavora alla «composizione della classe».

Nell’ottava tesi per una storia militante, pubblicata nell’undicesimo numero della rivista Primo Maggio (i 29 numeri sono stati rieditati da DeriveApprodi) Sergio Fontegher Bologna ha scritto che lo storico dà un contributo alla creazione di «un soggetto sociale costituito da tutti gli elementi che possono determinare e/o condizionare un processo di liberazione». Centrale è l’idea marxiana di duplicità della forza lavoro: da un lato, è sfruttata; dall’altro lato, è la facoltà che crea il valore di cui il capitale ha bisogno per sfruttarla. Fondamentale intuizione per comprendere anche il ruolo della scienza. «È ambivalente perché può esistere come potere di costrizione attraverso la tecnologia e come potere di liberazione». Così inteso, questo metodo può essere utilmente riapplicato.

Lo stesso si può dire della storia: da un lato, fissa l’invisibilità degli oppressi nel silenzio della memoria; dall’altro lato, scava come la celebre talpa per fare emergere il fulmine della rivolta dalle stratificazioni del rimosso. Il metodo non è un esercizio avalutativo. È una guida alla prassi che serve all’intelligenza e all’esperienza collettiva della lotta. È il rapporto tra lo sciopero degli elettromeccanici milanesi e i Quaderni rossi, per esempio. La stessa storia fatta da Primo maggio, di cui Fontegher Bologna è stato il primo direttore, ha intrattenuto un rapporto intimo con il movimento del Sessantotto da cui giunse potente la richiesta di una nuova storia contemporanea. Fontegher Bologna ne colse subito lo spirito in Maggio 68 in Francia (DeriveApprodi), esemplare inchiesta scritta con Giairo Daghini. Il metodo ispira oggi la sua partecipazione ad Acta, un’associazione di lavoratori autonomi e freelance. Gli esiti si sono visti in libri come Banche e crisi o Tempesta perfetta sui mari, Ceti medi senza futuro? (DeriveApprodi). E ancora: Knowledge Workers e La New Workforce (Aasterios).

IL BAGAGLIO A DISPOSIZIONE dello storico è dunque ampio: punto di vista e composizione della classe, storia del presente e critica dell’economia politica e della soggettività. Così intesa la lettura della storia svolge un ruolo liberatorio sia rispetto alle teleologie che rispetto alle origini. Né filosofia della storia, né ontologia, la storia è un salutare esercizio della prassi. Fare storia significa allora fare critica dell’economia politica. Il marxismo non è l’applicazione schematica di formule, ma la definizione cangiante delle modalità attraverso le quali è possibile comporre gli elementi, e i divenire, che formano la soggettività che abolisce lo stato presente delle cose e prospetta congiunzioni moltiplicatrici nel futuro.

Questa impostazione ha permesso a Fontegher Bologna di leggere, a partire dagli anni Settanta, il rapporto tra credito, sviluppo e crisi ancora prima che la rivoluzione monetarista mostrasse il suo volto titanico e opprimente. Oppure saldare i conti con la storia degli oppressi vendicandoli. Da questa potente immagine benjaminiana è nata l’esemplare ricerca storica condotta in Primo Maggio sugli Industrial Workers of the World (Iww) statunitensi all’inizio del XX secolo. Un’epica del sindacalismo rivoluzionario, raccontata da Valerio Evangelisti in un romanzo a dir poco vibrante (One Big Union, Mondadori), è tornata sotto la forma di una prefigurazione profana nel movimento di San Precario agli inizi del XXI secolo.

Scheggia di Mitteleuropa piantata nel cuore del capitalismo contemporaneo, Sergio Fontegher Bologna è nato a Trieste, vive a Milano e continua a rivolgere lo sguardo alla cultura tedesca come ha raccontato in Ritorno a Trieste. Scritti over 80 (2017-2019) (Aasterios, pp. 314, euro 23). Di formazione filosofica, ha studiato la teologia protestante e per questo ha avuto accesso alla vita segreta del capitalismo. Lo dimostra la sua tesi di laurea, seguita dal grande germanista Enzo Collotti, ora pubblicata in La Chiesa confessante sotto il nazismo. 1933-1936 (Shake, pp. 320, euro 18) o il classico Nazismo e classe operaia (Shake, pp. 205, euro 11).

L’ORIGINALE VIVACITÀ intellettuale del suo percorso si confronta oggi con il prevalere della memoria sulla storia e delle problematiche deontologiche sulla ricerca storica vera e propria. Si parla anche qui di «narrazioni», un altro modo per giustificare l’eclisse del presente e dell’«etica della partecipazione ai movimenti sociali». Vengono meno le premesse che hanno contribuito alla formazione di una «storia militante». E tuttavia non sfuggono i sintomi divergenti che maturano in un presente irriducibile alla sua riduzione al «presentismo». Il banco di prova è il lavoro di cui è stata celebrata la «fine» – come quella della politica, della storia o del mondo. Fontegher Bologna si è messo sulle tracce del dibattito sulla Global Labour History e su quarant’anni di inchieste sul lavoro precario mescolate con gli approcci femministi e postcoloniali. La ricerca è più viva che mai. Non solo lavoro salariato, ma anche quello autonomo «di seconda generazione» di cui è stata ricostruita la singolare parabola dalla Repubblica di Weimar agli Stati Uniti della Freelancers Union.

IL LIBRO SI CONFRONTA infine con l’eredità del ’68 e gli anni Settanta in Italia ridotti a «anni di piombo». «È la più fragile delle tesi possibili – scrive Fontegher Bologna – Basta che si raccontino quegli anni come anni di lotte operaie e sociali che il castello di carte crolla. Il punto di vista è quello della storia sociale non della storia delle élites, del personale politico, delle sue ideologie». Messa a confronto con quel «processo di emancipazione di massa, anche la strategia della tensione» viene ridimensionata a reazione contro un processo generale. La storia non è un derby tra vincitori e vinti, ma è il conflitto tra trasformazioni durature e transitorie. Dove hanno prevalso le prime quei movimenti hanno segnato un avanzamento. Il mestiere dello storico, in quanto arte delle prospettive, riparte da qui.