Il mestiere del virus e quello degli umani
L'anticipazione Uno stralcio dall’editoriale del nuovo numero di «Critica Marxista». Nello scenario attuale è emersa la stupidità dei vincitori. Quelli che da sempre immaginano che il mondo perfetto è quello in cui domina chi si fa più forte con qualsiasi mezzo
L'anticipazione Uno stralcio dall’editoriale del nuovo numero di «Critica Marxista». Nello scenario attuale è emersa la stupidità dei vincitori. Quelli che da sempre immaginano che il mondo perfetto è quello in cui domina chi si fa più forte con qualsiasi mezzo
Era certo difficile prevedere questa specifica pandemia, ma non è vero che non fosse stato abbondantemente previsto nella comunità scientifica competente – e non solo dal molto citato Bill Gates – che bisognava prepararsi alla difesa da nuove prevedibili epidemie virali a causa dei numerosi precedenti sempre più motivati dalla distruzione umana dei residui spazi rimasti di natura incontaminata. Ed è vero, invece, che questi avvertimenti sono stati del tutto ignorati da molti regimi politici e da altri sottovalutati, è vero che, ove esisteva, la sanità pubblica ha sofferto di pesanti tagli, e in Italia più che altrove, cosicché la impreparazione materiale è costata la vita a molti.
LA IMPREVIDENZA non è stata figlia di inettitudine ma di un’ideologia e di una politica. Quando il primo ministro inglese ha enunciato la dottrina dell’immunità di gregge non raccontava una scoperta sua.
All’origine di questa dottrina, il pensiero liberistico, la riduzione al minimo dell’intervento pubblico. Un pensiero tanto fallace, oltreché disumano, che Johnson è stato costretto a smentirsi rapidamente, ancor prima di ammalarsi, di confessare di essere stato in pericolo di morte e di essersi salvato per l’opera di due immigrati, quelli che la sua brexit aborre. Un esempio da ricordare.
Come sempre quando ci sono svolte drammatiche nella vicenda umana, si è semplificata la casistica dei sentimenti, i buoni e i cattivi, i sapienti e i fanfaroni, chi fa il bene e chi si esibisce, chi pensa agli altri e chi solo ai suoi interessi o addirittura specula sulla disgrazia comune. Ma a me pare sia soprattutto divenuta evidente la incommensurabile stupidità dell’assetto umano in cui ci troviamo a vivere.
È la stupidità dei vincitori. Quelli che con la mazza più grossa stendevano a terra il rivale a fini mangerecci e hanno continuato così fino ad oggi, immaginando che il mondo perfetto è quello in cui domina chi si fa più forte con qualsiasi mezzo. Fondando, in linea di principio, sull’interesse proprio, poi esteso alla propria tribù, al proprio Stato, al proprio Impero. È stata l’epopea dei cattivi sentimenti considerati veramente umani, in cui siamo ancora pienamente immersi. La preistoria, diceva il vecchio Marx (anche se non sappiamo quel che verrà).
SONO ANCH’IO tra gli estimatori di don Jorge Mario Bergoglio, Francesco in quanto Papa, che con suo grave rischio sta cercando di rappacificare le religioni e i culti – che tra di loro si combattono selvaggiamente, spesso a mano armata – anche parlando di un Dio unico non più frammentato tra le fedi, ben sapendo, attraverso la storia dei popoli originari della sua terra, cosa ha voluto dire essere conquistati dai seguaci di quella religione che in nome della vittoria della croce (cioè di se stessi) adoperavano la spada, la polvere da sparo e la frusta degli schiavisti. Il Papa Francesco è odiato da tanti dei suoi colleghi cardinali non solo per gli scarponi da contadino ma perché va predicando che la guerra serve solo ai mercanti di armi e ai finanzieri, che la terra non è stata data agli uomini per distruggerla, che il fine supremo non può essere il profitto privato, che vorrebbe una chiesa povera per i poveri. Lui ricorda che non fa altro che predicare il Vangelo, ma i suoi nemici gli danno del comunista perché sanno che a praticare il discorso della montagna (Matteo, 5) si perde la consociazione con i potenti.
Ma se Francesco papa appare un pericoloso e troppo isolato rivoluzionario, questo accade perché coloro i quali avrebbero dovuto e potuto continuare a denunciare le insanabili contraddizioni del sistema vincente, anche solo al fine di mitigarne le peggiori conseguenze, lo hanno sposato col corpo e con l’anima a partire dall’idea di uno sviluppo infinito in un mondo finito e dalla pratica di lasciare nella mano dei pochi il risultato del lavoro e dell’intelletto sociali. E hanno continuato a giustificare vergognose guerre neocoloniali.
Il danno non ha riguardato solo la parte politica che ha dimenticato il suo compito e cioè quella che è detta «sinistra». Solo il contributo rappresentato da una riflessione e da un’azione ispirate da uno sguardo critico sulla realtà, può consentire di introdurre il dubbio sul presente come unico orizzonte, la ricerca di altre visioni del mondo, di altre relazioni umane possibili e dunque anche di altre politiche per l’immediato.
NON ANDAVA COMBATTUTA unicamente la contraddizione interna al meccanismo economico capitalistico, ma le sue premesse: i fondamenti della società patriarcale (la competizione esasperata e la violenza, figlie del maschile come valore assoluto), la signoria indebita contro la natura considerata rapinabile a volontà, la sottomissione dell’intelletto sociale, cioè della scienza e della tecnica, al servizio del dominio e non della libertà. «Inaspettata» fu detta la crisi economica del 2007-2008 (bugia), «inaspettata» è stata definita la pandemia (bugia recidiva). Dovrebbe essere venuto il tempo di voltare pagina rispetto a questa cultura della menzogna.
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Un numero doppio sulla pandemia
Il nuovo numero, doppio, di «Critica Marxista» è dedicato in larga parte alla pandemia, a cominciare dall’editoriale di Tortorella. Delle conseguenze sociali ed economiche del virus si occupano gli interventi di Vita e Gianni, mentre sul contesto socio-sanitario vertono quelli di Greco, Frontali e Memo. Una sezione tematica è poi dedicata all’immigrazione, con i testi di Leiss, Pierantoni, Marullo, Torre e Miraglia. La rivista ospita infine due lettere e un confronto tra Ingrao e Luporini sulla fine del Pci e una recensione di Rodari alla prima edizione dei «Quaderni del carcere» di Gramsci dell’immediato dopoguerra.
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