Il mercoledì del leone Milius visto da Ghezzi
I magnifici 70 L’americanità come un continuo stare in bilico sull’autodistruzione: ritratto-recensione d'autore del regista, 1978
I magnifici 70 L’americanità come un continuo stare in bilico sull’autodistruzione: ritratto-recensione d'autore del regista, 1978
John Milius amerebbe poter sparare ai suoi attori. Lo afferma nella lunga intervista dedicatagli due anni fa dalla rivista americana Film comment. Per ora, si limita a sparacchiare per aria sul set – alla Fuller – per vivacizzare l’ambiente. Un mercoledì da leoni viene dopo Dillinger (con Warren Oates), Il vento e il leone, e diverse sceneggiature (Corvo rosso, L’uomo dei sette capestri, un paio di Eastwood-Callaghan…) tra cui quella dell’imminente Apocalypse now di Coppola (ma Milius è inferocito perché il suo libero ispirarsi al Conrad di Cuore di tenebra per un’oscura «epopea di grandiosa discesa all’inferno animale» nell’ambito della guerra del Vietnam sarebbe stato «snaturato» ai fini di un «anti-war film» pedestremente umanitario e «liberal»).
Trentaquattrenne, Milius è amico, o collega di studi nelle scuole californiane di cinema, dei Lucas, Coppola, Spielberg, Scorsese, Schrader. Adora Ford e Kurosawa, gli piacciono Aldrich Fuller Hawks Walsh e… Leone – Wertmüller; i suoi due film preferiti sono: in assoluto Sentieri selvaggi, negli ultimi dieci anni Patton. Ma si distacca netto dal cliché del «giovane cineasta Usa», prima cinefilo appassionato e poi consumato praticante di meraviglie nella nuova «movie-factory».
L’interesse del suo cinema sta proprio nella contraddizione, tra l’appartenenza a una «nuova ondata» furba e modernissima nel ricostruire modelli narrativi e il personale attaccamento «arcaico» a valori o disvalori che eccedono fortemente la pratica del mezzo e l’amore per la cinepresa. Considerato una sorta di ultra-anarchico di destra, gli piace la forza e la guerra, è per l’americanità vista anche come continuo stare in bilico sull’autodistruzione, e crede che l’irresponsabilità sociale sia la migliore virtù americana. Che i suoi valori siano arretrati o meno («My honour, my family and my friends»), i film mostrano come non sia possibile oggi ricostruire un cinema «classico» che li privilegi o ne sia privilegiato. Milius colpisce per la preminenza ingenua di tali valori, per la sintomatica attenzione alla sceneggiatura, per il rispetto quasi accademico dell’inquadratura quasi fordiana. Dalle sue stesse dichiarazioni, si desume che c’è sempre qualcosa di mitico, di grandioso, di eroico da mettere in risalto; un vero e proprio «mito del mitico»: ma il suo mito non è il cinema.
Mentre gli altri hanno in un modo o nell’altro capito o accettato l’artificialità dello spazio (il «capannone» di Spielberg…) in cui si costruisce sia il cinema fantastico che quello realistico entrambi mediati dall’astrattezza tecnica, lui si tiene ancora a un procedere per gradi, dalla realtà (mitica…) alla sua rappresentazione mediante l’operazione artistica. Così, è lontanissimo dall’altro «anarchico di destra» ugualmente odiato dalla critica Usa progressista, Peckinpah.
Milius faceva il surfer sulle spiagge del Pacifico, cavalcava onde sognando di essere un eroe, pensando con i suoi amici di morire a venticinque anni dopo una vita-leggenda. Intriso di mitologismo autobiografico (il personaggio di Bear – Orso – dovrebbe essere Milius stesso) e di buon senso cinematografico a volte piatto, il film ha il suo fascino, oltre che nelle straordinarie riprese «dentro le onde» proprio nella chiarezza dello scacco che vi subisce la «classicità» cinematografica.
La classicità hollywoodiana era insieme prodotto e fattore del massimo controllo «industriale» sui film da parte di autore, autori, studio, fabbrica. Qui il film sembra «fallire» a ogni momento, preso tra scarti di ogni tipo, anche magnifici: voluto eroismo dei fatti e mancanza di eroi possibili, attenzione psicologica al tramonto della giovinezza e dei suoi miti acquatici, ma vuoto psicologico dei personaggi; rifiuto di un cinema puramente fisico e strutturale alla Corman (altro lontanissimo qui), e però un film che risulta poi per lo spettatore, soprattutto un inseguimento di ondate e di scivolamenti.
Non c’è bisogno di costruire la malinconia come facevano Mean streets, Non torno a casa stasera, American graffiti; la malinconia qui non è prodotto cinematograficamente ma dallo scarto tra il cinema e il mito. In questo contrasto, sta l’onesta ambiguità che non si riesce a intravvedere nei più «tecnici» colleghi di Milius. Che la vita passi più o meno degradata tra un’ondata e l’altra, non è triste in sé, ma, appunto perché è degradata, i personaggi non esistono (nonostante le illusioni del regista) e sono le onde a «vivere» le loro corse gioiose e armoniche, a produrle e mangiarle. Ma senza timore panico, come quando alla fine scompare il corpo dell’eroe, nell’onda che appare mortifera e lo abbraccia lo sballotta lo soffoca ma lo restituisce vivo e galleggiante.
(2 dicembre ’78)
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